Giappone Last Minute
In Giappone non ci si fa toccata e fuga! La mappa me lo urla impietosa, ed io solo ora mi rendo conto di quanto il Paese del Sol Levante sia grande ma soprattutto lontano. Più di casa, più dell’Italia. Non ci si può andare così, senza nemmeno aver avuto il tempo di acculturarsi quel tanto che basta per ampliare almeno un po’ orizzonti fatti di geishe e samurai, karaoke, case del tè e manga.
Chiudo la valigia con poca convinzione, ripassando mentalmente quelle due parole di giapponese che tento di convincermi mi salveranno in caso di investimento, ammaraggio o subitanea esigenza di una toilette. Ma va a finire che parto lo stesso: se la vita decide di giocare questi scherzi tutto sommato è meglio stare al gioco ché ogni lasciata è persa. E d’altronde io con il destino ho smesso di discuterci già da un po’.
Secondo recenti studi serve un giorno intero a recuperare un’ora di fuso orario. Ci penso mentre allaccio le cinture di sicurezza e un’hostess mi passa il kit della buonanotte (coperta, maschera per gli occhi, tappi per le orecchie e pure un assorbente interno, che non si sa mai). Le otto ore di fuso orario le recupero in una settimana, ovvero la durata esatta del mio viaggio. Quando si dice organizzazione.
Il Giappone mi sorprende al mattino (il suo mattino), con il sole che disegna scaglie di luce nel mare e i gabbiani che piroettano nell’aria al largo della baia di Tokyo. Riemergo di colpo dai torpori del sonno e l’adrenalina mi sale quasi stessi atterrando alle Hawaii. Nel capitolo nordeuropeo della mia esistenza c’è davvero poco spazio per i giorni di luce ed io quasi mi sono dimenticata quanto gaudio ci stia in una scena di sole al mare. E fortuna vuole che il sole mi faccia buona compagnia, quando acceso di scarlatto sbuca tra i grattacieli di Tokyo facendo del suo meglio per ammorbidire l’aria fredda della sera che cala. Ci segue con lo sguardo e non riesco a capire se è perché stiamo facendo qualcosa di sbagliato o piuttosto perché abbiamo l’aria di due sprovveduti.
Al telefono Andrea me l’aveva detto che “Tokyo è come il Cairo, ma molto più ordinata”. E di ordine sistematico e sistematica ottimizzazione degli spazi si è trattato. In un modo per certi versi difficilmente concepibile anche dalle menti europee più allenate. Perché passi togliersi le scarpe quando si entra in case e ristoranti (lo si è fatto nelle dimore di tedeschi e svedesi, non vedo perché coi giapponesi si debba fare eccezione). Ma adibire un paio di ciabatte solamente alla stanza da bagno o assicurare che il cavalletto della bicicletta poggi su un micro tappetino pensato per evitare di lasciare aloni sul pavimento del cortile di casa potrebbe cogliere impreparati anche i fautori della pulizia ad ogni costo.
L’insegnante di calligrafia me lo ribadisce: è un discorso di bilanciamento degli spazi. Il pennello deve scorrere sul foglio cosciente dell’armonia delle forme. La mano deve esercitare la giusta pressione ed il respiro seguire il ritmo del movimento. “È tutto calcolato” e con le mani posa la coppa dalla quale ha sorseggiato il tè matcha, risistemandola nel posto esatto dal quale l’ha sollevata.
Ascolto ed annuisco, sforzandomi di dimenticare come, da brava italiana, non abbia mai avuto alcun problema a temperare la precisione con una buona dose di approssimazione. E per quanto apprezzi la meticolosità, mi chiedo quanto spazio lasci un sistema che fa delle regole la sua ragion d’essere e -perché no– il suo vanto alla libera ed indipendente espressione della personale ed individuale unicità. In fin dei conti sono pure loro esseri umani, mi dico mentre lascio la casa della graziosa insegnante, che in un’ora di fatiche è riuscita ad insegnarmi come scrivere la parola Sogno e la parola Pace.
Il fatto è che ognuno sembra sentirsi a suo agio nella propria zona di comfort e nonostante un sorriso non lo si neghi a nessuno, la privacy pure in pubblico è ritenuta cosa buona e giusta. Le maschere sanitarie i giapponesi non le indossano solo quando vengono in gita a Roma o Firenze, ma anche a casa loro. È una questione d’igiene e rispetto, dicono, eviti di ammalarti e di ammalare gli altri. Ma quando in una sala fumatori (sissignore, in Giappone esistono ancora) vedo un uomo che si rimette la mascherina subito dopo aver finito una Marlboro, la teoria non regge. I giapponesi, checché se ne dica, sono felici di nascondersi.
Abbiamo provato a fermare i passanti e a chieder loro di togliersi la maschera per farsi fotografare a volto scoperto, come parte di un esperimento fotografico. I no sono piovuti a valanghe. Chi ha detto di sì ha dimostrato coraggio e fiducia, ma ha anche risollevato la maschera un nanosecondo dopo aver udito il click della Yashica.
E allora me lo sono chiesto: come, dove evade questa gente? Le strade di Tokyo sono una compenetrazione di tradizione e modernità, di anatre e pesci che cuociono lentamente sulla griglia, di lampade in carta giustapposte alle insegne luminose del quartiere a luci rosse di Shinjuku, di anziani con gli zoccoli e ragazzette vestite da paladine della giustizia. La Tokyo che ho conosciuto si ubriaca e canta la propria voglia di evasione nei karaoke, guarda ai modelli della cultura occidentale e li riveste di piume, brillantini e tulle rosa, lavora per cogliere di sorpresa il futuro giocando d’anticipo con la sua superiorità tecnologica.
Non c’è posto in cui lo Shinkanzen non ti faccia arrivare in un battito di ciglia. Tra Tokyo e Kyoto sono la bellezza di 450 chilometri ma solo due ore e mezzo di viaggio. Il treno super veloce costa, ma ti porta avanti e indietro nel tempo.
Kyoto sta adagiata tra le montagne e non sembra volersi arrender del tutto alle esigenze della modernità. Ci arriviamo in cerca di ponti sospesi tra macchie di fiori di ciliegio e geishe che sorridono timidamente sotto gli ombrellini dipinti a mano. Fiori di ciliegio non ce n’erano (a gennaio sarebbe stato chiedere troppo a Madre Natura) e le donne col chimono che si sono intraviste per strada non è chiaro se fossero geishe oppure no. Quel che è certo è che l’autenticità delle tradizioni è tenuta sotto chiave: le cerimonie del tè, quelle originali, non sono disponibili per i turisti e gli spettacoli di geishe, quelle vere, sono offerti solo nei circoli chiusi ai quali si può accedere solo grazie a influenti conoscenze, e su espresso invito. La spiritualità, invece, quella è per tutti.
Entriamo in uno dei tanti santuari shintoisti e ci dirigiamo verso il Jinja, dove uno sconosciuto ci invita ad attraversare la fila di portali dipinti di rosso vermiglio ed esprimere un desiderio che il dio esaudirà. Tutt’intorno statue di volpi, considerate messaggeri divini.
Nel suolo sacro, casa del dio, l’innata gentilezza dei locali si accentua fino a rasentare l’invadenza. Che comunque è ben accetta.
Ci segue con lo sguardo e non riesco a capire se è perché stiamo facendo qualcosa di sbagliato o piuttosto perché abbiamo l’aria di due sprovveduti. Ma non ci mette molto a farsi coraggio e ad avvicinarsi pronunciando alcune parole in giapponese. Ad oggi non so come si chiami e ancora mi chiedo come siamo riusciti a comunicare se lei di inglese non sapeva una parola, e noi nella sua lingua si riusciva al massimo a dire grazie, prego, scusi, tornerò.
Ma ci ha comunque guidati, insegnandoci dove purificarci, dove pregare, dove meditare o fare un’offerta. Ci spiega a gesti che con l’anno nuovo i santuari come quello si riempiono di fedeli che vengono a ringraziare gli dei e a fare offerte per assicurarsi amore, salute, denaro e fortuna nei giorni a venire. Ci guida verso un banchetto dove per 1000 Yen si possono acquistare gli omamorì, i talismani della buona fortuna. Ne compriamo uno a testa e veniamo rassicurati del fatto che, non ci dovesse piacere ciò che il dio ha da mandarci per il 2016, l’omamorì possiamo lasciarlo al tempio e pregare gli dei di essere più benevoli la prossima volta.
Ma sembra che la fortuna ci assista: la ragazza si mette a ridere e ci assicura che non potevamo ricevere un omamorì migliore.
Mi ricordo di notti siriane, quando una donna di Damasco lesse la tazza dalla quale avevo bevuto caffè turco e predisse cose che si sarebbero avverate anni dopo. E per quanto non sia superstiziosa, sapere di avere il favore degli dei -almeno per quest’anno– mi ha fatto tirare un sospiro di sollievo.
La ragazza ci lascia (non dopo aver ricevuto due solenni Arigato Gosaimas con tanto di inchino) e noi ci dirigiamo verso l’uscita. Il talismano che stringo tra le mani mi consiglia di viaggiare solo verso sud e verso ovest. Sorrido e penso che la prima avventura dell’anno è stata nientemeno che in Estremo Oriente. Magari questa volta gli dei non ci hanno azzeccato. Sayonara Nihon, i viaggi last minute non fanno per me: ci rivedremo presto.