L’acne (la miracolosa crema dell’esimio Doc)
Per mia fortuna non ho dovuto passare i peggiori anni della mia vita a schiacciarmi i brufoli davanti a un inesorabile specchio. Tuttavia un bel giorno, avrò avuto su per giù tredici anni, iniziarono a spuntarmi delle strane pustole tra un sopracciglio e l’altro. Saranno state cinque o sei, non di più. Se avessi avuto un grande senso dell’umorismo e una scarsa considerazione del tempo libero di mia madre avrei potuto unire la proiezione di queste bolle sullo specchio con un pennarello rosso e creare così una nuova costellazione. Ma, come detto, l’ironia mi difettava e all’astronomia preferivo il calcio. Allora, mentre sondavo con l’indice quelle infelici escrescenze, pensai che questo era proprio un guaio. L’ansia sfiorò il livello di guardia e la mia mente rispose all’attacco fornendomi immaginarie fototessere di alcuni compagni di classe. Checché se ne dica, il mal comune è ben più della metà del gaudio. E così abbandonai la neonata costellazione per più stimolanti attività. Di cui è meglio tacere.
Nei giorni seguenti la situazione peggiorò e non poco. Quella che era una timida costellazione di purulente stelline si Se avessi avuto un grande senso dell’umorismo e una scarsa considerazione del tempo libero di mia madre avrei potuto unire la proiezione di queste bolle sullo specchio con un pennarello rosso e creare così una nuova costellazione
Mi sentivo compromesso, perduto. La scuola mi pesava, lo specchio mi annientava. Non la faccio grossa: provate voi a ridere e scherzare a cuor leggero a tredici fottutissimi anni con una massa informe di brufolame vario all’altezza del sesto chakra. Topexan e altri sotterfugi commerciali lasciavano il Caucaso che trovavano. Tentai la via della spiritualità e promisi a mani incrociate e cuore aperto di abbandonare per sempre le più stimolanti attività di cui sopra. Con scarsi risultati. Sia in un campo che nell’altro.
Poi un giorno i miei genitori, stufi di cotanto piagnisteo tra le mura domestiche, mi portarono da un luminare dell’epidermide che strabuzzò gli occhi dietro le grosse lenti, fece un paio di volte si con la testa, farfugliò qualcosa tra il latino e il volgare e mi rifilò un unguento il cui nome non mi diceva nulla, ma lo sguardo sicuro dell’emerito Doc mentre vergava la ricetta, quello si mi convinse che fosse la strada giusta.
Quella notte non chiusi occhio e non tanto perché la crema mi avesse trasmesso la sua ansia da prestazione, ma per evitare che durante il sonno potessi sfregare la zona medicata sul cuscino e compromettere la mia pronta guarigione. E poiché l’insonnia mi aveva stimolato la vescica, giungendo al gabinetto evitai con cura di osservarmi a quello specchio del bagno che consideravo ormai infido. Senza considerare le regole della nonna: non guardare e non toccare. Pena: non guarisci. Urca, non sia mai, cazzo.
Non penso che il mattino seguente il mio sesto chakra si fosse dischiuso alla bellezza del mondo, ma fatto sta che nel breve volgere di alcune settimane la situazione volse alla normalità. Cosa imparai da questa breve esperienza? Niente. Nemmeno il nome della pomata. Nemmeno quello dell’esimio Doc. Del resto gli adolescenti tendono a rimuovere le cose utili e leggere e a mantenere quelle ingombranti e deleterie.
Potevo almeno dare un nome a quella costellazione, no?