A piè pari nelle pozzanghere
Ieri c’era il sole. La primavera è alle porte, ho pensato, come quelle volte in cui al ritorno da scuola, perdevo un po’ di tempo, distesa sul letto matrimoniale accanto alla porta-finestra aperta, orientata a sud-ovest, per godere dei primi raggi di sole di marzo. Solo il rumore di qualche macchina che passava dopo pranzo interrompeva il cinguettìo dei primi merli in risveglio. Altrimenti erano le note, che passavano attraverso cuffie imbottite con il cerchiello di metallo allungabile, di qualche nuova canzone registrata su cassetta, perché all’epoca esistevano ancora.
Erano gli anni in cui litigavo spesso con tutti, genitori in primis, anzi con mio fratello povero, che da responsabile tutore si prendeva carico di tutti i miei casini, a volte segreti, a volte semplicemente adolescensazioni (passatemi il termine, c’è chi inserisce nel vocabolario della Crusca pseudo-neologismi come petaloso, e io non posso tramutare le azioni/sensazioni adolescenziali in adolescensazioni? Eh!), a volte con gli amici, ma il più delle volte litigavo con me stessa.
Non mi andavo mai bene, e non andandomi bene io, non riuscivo a farmi andare bene gli altri. Le amicizie andavano e venivano, una soprattutto si era eclissata, piena di rancori e di tristezza, promesse non mantenute, gelosie stupide e interessi diversi, cambiati con il tempo e con la crescita inevitabile. Si maturava, e io che sono sempre stata la più piccola d’età, ma un po’ più avanti nel processo di crescita, non riuscivo a rispecchiarmi in certe consuetudini giovanili.
Oggi piove. Mi sveglio e so che ho trenta minuti di camminata con ombrello, borsa, zaino e stivali di plastica nera (qui vanno di moda, io li usavo in caso di acqua alta a Venezia, mah), e non bastasse sono da ieri con una contrattura muscolare alla schiena, che mi tormenta ad ogni movimento, o starnuto, che non può evitare di succedere giusto in queste occasioni. Nonostante l’umidità, non mi lamento. Cammino, reggo l’ombrello, sopporto il dolore. Scanso le auto che come caccia sfrecciano per le strade fino al campus alzando onde di acqua che ricadono sui miei stivali non più asciutti. So che fra qualche centinaio di metri, all’incrocio con Ward Street troverò la solita signora bionda che ferma il traffico per fare attraversare i bambini che vanno alla scuola primaria a qualche passo dal college. Da settembre, per tre giorni a settimana ci vediamo, ci salutiamo con la mano destra e solo quando non corro, in ritardo, riusciamo a scambiare qualche parola, sul tempo, sulle mie scarpe che si aggiudicano un complimento, sul cagnolino che ha appena rischiato di farsi stampare sull’asfalto. Io, mentre sopraggiungo dai piedi della collinetta, la intravedo mentre parla con quell’uomo che parcheggia dietro alla sua macchina un pickup che resta acceso per una qualche decina di minuti. Magari sono amici, magari amanti. Magari chissà.
Anche oggi è lì, seduta in macchina al caldo, che parla animatamente con lui. Io non faccio caso a dove metto i piedi perché tanto ho i miei stivali che mi riparano da pozzanghere improvvise, dissesti della strada, erba scivolosa delle aiuole o schizzi di fango. Sorrido ricordando la settimana scorsa in classe, quando, sempre in un giorno di pioggia, le mie studentesse mi hanno chiesto se saltassi dentro le pozzanghere notando il grande quantitavo di fango che copriva gli stivali fino al livello del polpaccio. Io, non pensando fosse un evento tanto strano ho sorriso, loro hanno semplicemente confermato la mia simpatica pazzia ai loro occhi. Nascondo il viso con l’ombrello, poi vedo una mamma con tre bambine a seguito che si posizionano davanti a me in direzione della scuola. La più piccolina, avrà avuto due anni, regge un ombrellino grande quanto lei, capita all’altezza di una pozzanghera e splash, ci si fionda dentro a pié pari con le scarpettine rosa, inzuppandosi i pantaloncini color kaki che già sfioravano terra.
Io sorrido ampiamente. La madre prima la sgrida con tono dolce e poi sentendo me sorridere, si volta, mi guarda, con sguardo di intesa dice qualcosa che non sento a causa della musica nelle orecchie, io le sorrido ancora di più, e mi sento bambina. E mi vado bene così.