Lo straniero nel gioco delle etichette
Passare da straniera a (quasi) amica è stato un processo lento e complicato. Non mi hanno accolta con feste Erasmus, miscugli di accenti amichevoli e brilli, sorrisi invitanti e un calderone di strette di mano, baci sulle guance e abbracci. Il mio inizio qui è stato segnato dalla diffidenza per lo straniero, da cliché stupidi che hanno rallentato il processo di abbattimento dei muri personali e culturali.
Questo gioco delle etichette è un gioco strano, malvagio, contorto.
Un semestre di gruppetti, di risate a metà, di un continuo e stridente senso di estraneità. Straniero, lontano. Va a finire che a considerarsi stranieri si perdono i contorni, le definizioni, si scappa dall’insieme, quello che disegnavamo alle elementari. Rimaniamo in una strana intersezione. Nel mio caso un cerchietto tra l’Italia e il Portogallo dove a casa ti chiamano la portoghese e in terra lusitana rimani sempre e solo l’italiana. Questo gioco delle etichette è un gioco strano, malvagio, contorto. Eppure, con un po’ di fatica, i muri sono venuti giù.
Una timida armonia si è stabilita tra “stranieri” diversi che condividono lo stesso spazio. Un equilibrio lento che ci ha messo un po’ a fiorire, eppure cresce saldo.
Ora ho un gruppetto folto che mi aspetta durante le pause, domande di genuino interesse sugli italiani, e una divertente invidia malcelata per la nostra cucina.
Insomma, ce ne ho messo di tempo, ma lo posso dire: tutto è bene quel che, per ora, sembra finire bene.