Vanno, vengono, tra le sbarre
Vanno, vengono, tra le sbarre, se ne vanno ancora, ritornano con altre facce.
Si affacciano alle sbarre, mettono dentro una zampa che a volte vorrei mordere.
Il loro passaggio scatena l’inferno all’interno delle singole celle. Chi più, chi meno, tutti diciamo la nostra. Abbiamo voci diverse, alcune forti, profonde che sembrano ruggiti, altre, quelle dei più piccoli, un po’ bisbetiche e insistenti. Qua e là dei guaiti piagnucolosi che mi fanno vergognare di essere un cane. Non è piangendo che dobbiamo farci notare dagli umani.
Esiste un patto antico fra cane e uomo. Risale a tante, tante stagioni fa che non saprei dire quante. Un patto di fiducia e alleanza, di AMICIZIA, firmato ai tempi in cui cane e uomo non differivano molto. Erano entrambi liberi, selvatici, si aiutavano a vicenda senza costrizioni, senza obblighi. Senza sbarre, senza guinzagli, senza museruola.
Tutti i cani conoscono l’esistenza leggendaria di quel patto, la conoscenza viene trasmessa alla prima leccata di pelo da parte della lingua materna, al momento stesso in cui i cuccioli vengono al mondo.
Gli umani invece lo hanno dimenticato, bisogna attendere con pazienza che qualcuno se ne ricordi. Quando succede è come se accadesse una magia. L’umano che d’improvviso, di fronte a un muso peloso, ricorda il patto, riconosce all’istante il suo antico amico e alleato, lui e nessun altro, e lo porta via con sé fino alla morte.
Sono qua dentro da tanto tempo che il mio pelo sta diventando grigio. Ho visto che talvolta la magia accade, il patto rivive: cane e umano si riconoscono, si annusano e si prendono. Allora il cane va via da queste gabbie, va a stare in una casa umana, che è sempre una gabbia, a pensarci, ma provvista di cose belle e buone: abbracci, carezze, baci, calore e tanta roba da mangiare.
Non che accada tanto spesso. Inoltre per uno di noi che se ne va, ne arrivano molti altri.
Quando vedo arrivare i nuovi, impauriti, arrabbiati, talvolta sporchi o feriti, ritrovo nei loro occhi la paura che era stata anche mia, quel giorno lontano in cui sono entrato in gabbia.
Ero poco più di un cucciolo. Ho un vago ricordo di prima: mani umane che mi sfioravano il corpo, mi strofinavano il muso, mi grattavano la testa.
Mi pare di ricordare un senso di felicità.
Ho un vago ricordo di prima: mani umane che mi sfioravano il corpo, mi strofinavano il muso, mi grattavano la testa. Mi pare di ricordare un senso di felicità.
Poi non so cosa è successo. Mi sono ritrovato libero, ma affamato e confuso. Libero, ma senza un riparo. Libero, ma solo.
Piangevo anch’io all’inizio, ululavo la mia disperazione alle stelle. Ma presto ho imparato a ringhiare. Nessuno mi diceva perché ero stato privato dell’odore di un umano e io, non sopportando l’ingiustizia, ero sempre più triste e arrabbiato.
Ancora non sapevo, ma l’ho imparato da lì a poco, che oltre agli umani che si prendevano cura di noi, ma che non erano quelli con cui scattava il riconoscimento del patto antico, altri ne sarebbero arrivati in un viavai continuo. E da allora è sempre la stessa storia.
Vanno, vengono, fra le sbarre, se ne vanno ancora poi ritornano con nuove facce. Gli umani vengono fra noi, spinti forse da un ricordo ancestrale, non cosciente. Oppure vengono solo a guardarci, che ci troveranno non si sa, io non ci vedo nulla di divertente.
Da subito mi sono rifiutato di fare moine. Non volevo attirare l’attenzione. Il mio umano lo avevo avuto e chissà che fine aveva fatto, perché mi aveva abbandonato. Ho sempre pensato che non lo avesse fatto apposta, ma non saprò mai la verità.
Così quando il branco di umani si muoveva a piccolo passo fra le gabbie, io adottavo la strategia della strafottenza. Me ne restavo in disparte rifiutandomi di guardare quegli occhi, di cercarvi traccia di quanto avevo perduto. Al massimo ringhiavo, se diventavano insistenti. Difendevo il mio cuore, non lo capivano?
Penso di essermi creato una brutta fama in questo modo. Anche gli umani che ci davano da mangiare dicevano agli altri di lasciarmi perdere, che ero un tipo difficile. E così il tempo è passato e sono ancora qui, ingrigito dentro e fuori, che osservo ombroso il viavai.
Poi succede qualcosa che non avevo previsto, che non avrei voluto.
Succede che in un giorno di pioggia come oggi, quando di solito gli umani se ne stanno a casa loro al caldo, all’asciutto, in pace con se stessi, ecco che in un giorno come questo arrivano due occhi che s’impigliano nei miei, contro la mia volontà. Accade la magia, insomma. Leggo in quegli occhi umani il ricordo dell’antico patto, e cane e uomo per l’ennesima volta si riconoscono.
La zampa dell’uomo entra nelle sbarre e senza equivoci si rivolge a me. Senza che possa fermarla, la coda mi si agita, comincia uno scodinzolio incredulo e incerto, come se non sapesse più come si fa a muoversi per fare festa. Non ci posso credere, sento le zampe che si muovono in avanti verso la zampa umana, la raggiungo e la tocco con la mia. Avverto una scossa, ed è indubbio che lui è il mio umano e io il suo cane, che come la leggenda vuole stanno per ripristinare un’amicizia incancellabile.
Ma mentre sto per allagare il cuore di calore, a dispetto di tutta questa pioggia, mentre non riesco a reprimere la voglia straripante di uscire da qui per ritrovare le carezze di quando ero piccolo, mentre quasi sto saltellando per qualcosa che assomiglia alla felicità, un gemito mi blocca. Non sono le mie vecchie articolazioni che si fanno sentire a causa di movimenti inconsueti. È il guaito del cucciolo che è in gabbia con me; lo avevo dimenticato, preso dalla magia.
E lui guaisce più forte, piange che mi si strappa qualcosa dentro. Lo vedo barcollare sulle zampette e avvicinarsi verso le sbarre, con l’andatura buffa della sua età. È tutto bianco, o lo sarebbe, se il fango e la pioggia non lo avessero ridotto a un piccolo scarto grigio. Si intravedono sotto il pelo sporco il naso e gli occhi, che restano neri neri. Continua il suo pianto irrefrenabile e tende anche lui una zampina verso l’uomo.
Non so cosa dice esattamente la leggenda. Può un patto appena ritrovato rompersi a favore di un altro cane? Può l’umano che ha trovato il suo cane rinnegarlo e sceglierne un altro? Lo sperimento subito.
Mi ritiro, in retromarcia, verso il fondo della gabbia. Mi fa male guardare, ma non abbasso gli occhi. Do una zampata al cucciolo che rotola in avanti, più vicino all’uomo. L’uomo mi guarda ancora, sembra non capire. Poi guarda meglio il cucciolo, e vedo che sì, la magia si rinnova. Ma non del tutto, perché i suoi occhi vanno da me al cucciolo con dentro una domanda enorme. Allora capisco che tocca a me. Gli volto le spalle e mi accuccio in modo che non possiamo più fissarci. Spero gli arrivi il mio disinteresse più totale e non il mio dolore, non il mio rimpianto.
Sento che la porta della gabbia si apre, il cucciolo non piange più. Sbircio di nascosto. È in braccio all’umano, gli sta leccando il muso. La porta si richiude, resto di nuovo solo.
Spero gli arrivi il mio disinteresse più totale e non il mio dolore, non il mio rimpianto.
È giusto così. Il cucciolo ha una vita davanti, ha il diritto di scoprire le carezze umane. Io le ho già conosciute e mi resta poco da vivere. Posso farne a meno.
È una bugia, la magia che si era verificata poco fa è stata bellissima. Ma ho nelle orecchie il pianto del cucciolo, orfano e senza nessuno. Non era giusto che subisse il mio stesso destino da ergastolano.
E poi, ora che so che può succedere anche a me, chissà. Forse la magia prima o poi passerà ancora di qui. E sarà solo per me.