Marina allo Zen o l’inno degli ultimi
La periferia era uguale ad altre periferie. Lo Zen, una terra desolata, abbandonata, il verde selvaggio intorno, il lerciume uguale a tutto il lerciume delle terre di nessuno, i palazzi accorpati ad altri palazzi, uguali ad animati sepolcri urbani.
Poca scuola, pochi amici, poco mangiare, poco di tutto. Marina, in quel rifugio d’anonima vitalità, trascorreva le sue ore osservando dalla veranda, d’alluminio infuocato, i bolidi cinquantini che andavano e venivano, avanti e indietro, riempiendo, con il rombare insopportabile, il silenzioso quartiere regalato al nulla.
Marina stava così, come sempre ferma, con lo sguardo rivolto all’orizzonte che per lei non aveva sorprese, né luci diverse da quelle di sempre.
Un’immobilità che non ti stacca da terra, mentre il corpo distende, nel profondo della terra, sottili fili di memorie, riempiendo intorno lo spazio disponibile che si offre ad ospitarle.
Marina da anni espandeva, senza resistenza, i suoi tentacoli, lasciandoli andare a saldarsi al pavimento della veranda, come radici di un albero che guidano il fusto verso il basso legandosi all’oscurità del sottosuolo.
Sentiva svanire però, da qualche giorno, ora dopo ora, la ragione di quell’immobilità, che da anni l’aveva catturata. Quella forza immutabile, che la teneva bloccata in quello spazio confortevole, da qualche tempo la stava abbandonando e decise che era arrivato il momento del distacco.
La veranda quel lunedì le restituiva un calore diverso dal solito. In questo spazio, circoscritto da cemento, vetro e tiepido alluminio, con un tuffo incosciente nell’ignoto, Marina scorse nell’orizzonte, ormai così familiare, uno stato imprevisto d’eccitazione, in altre parole, una consapevolezza, fino allora mai provata, che le diede la certezza che da quel lunedì nulla sarebbe stato come prima: una ragione che la sua anima non avrebbe ostacolato o invaso da dubbi, incertezze.
Ritirare i fili, recuperare adesso i ricordi, resistere alla depressiva gravità dell’abbandono, così Marina, quel mattino, rompeva l’incanto fatale che per anni aveva sedotto la sua innocenza.
Verso l’imbrunire, Marina raccolse lo zaino, con la treccia rigirata a ruota alla nuca e fissata con due clips azzurre, si avviò sicura giù verso le scale.
Fuori, non volse lo sguardo indietro, non sentiva rumori, non avvertiva nulla, solo il suo corpo le sembrava più leggero, amichevole e per la prima volta da anni accogliente.
Quel tardo pomeriggio vide lontano, ancora illuminato dal sole, l’orizzonte, lo vide vicino, socievole e cordiale, come l’amico mai conosciuto che come lei voleva partecipare alla promessa di libertà.