Il ritorno di capitan Nessuno
Sono il capitan Nessuno e in queste poche righe vi racconterò del mio ritorno. Perso tra le pieghe dell’esistenza, vagavo in mille mari in burrasca. Avevo vissuto a sufficienza e visto cose che mi facevano ribrezzo. Sin da bambino prendevo le parti dei più deboli essendo uno che non le mandava a dire, figuriamoci a fare. La vita mi poneva davanti a continue scelte, ma di scegliere non ne avevo alcuna voglia. Ora mi trovavo qui, immerso nei miei pensieri di ingegneria metafisica, perso tra le onde alte del dubbio e impreparato per l’imminente annegamento. Al mio fianco la solita bottiglia di rum. Una bottiglia di qualche sottomarca, incredibilmente ancora piena. Era la penultima di una scorta che pareva essere infinita. Pensavo ad Efelide ed ai suoi occhi celesti luminosi, pensavo ai mie fratelli, sempre indaffarati con la vita (la loro e quella degli altri), pensavo al mondo che intanto girava come un vortice che tutto ingoia. Pensavo a tutto questo e a mille altre cose e non avevo la più pallida idea di dove fossi diretto. Con decisione prendevo la bottiglia di rum. Alzando il gomito più in alto che potessi, riuscivo a mandar giù in quattro sorsi abbondanti tutti e settantacinque centilitri. E magicamente era già mattina. Il primo raggio di sole andava ad appoggiarsi sulla mia caviglia sinistra. Nel dormiveglia riscontravo un calore in quel punto del corpo mai sentito prima. Avevo sempre sottoutilizzato il mio corpo, rendendolo a semplice contenitore di effimero, di pensato, di possibile. Un gigantesco involucro, forse troppo grande per quelle poche cose. Nel breve volgere di un quarto d’ora, la luce solare si posava fino al mio addome scoperto. Il sole scavava nelle smagliature della pelle e del tempo. Segni, quelle smagliature, che volevano annunciarmi di esserci. Di essere lì nonostante tutto. In pochi attimi e con la testa dolorante balzavo in piedi. M’accorgevo di presenze strane alle mie spalle. Due ombre si allungavano al salire del sole. Mi voltavo, guardingo e senza movimenti bruschi. Un uomo. Alto quanto me, forse qualche centimetro in più. Grossi piedi nudi. Gambe esili vita stretta. Addome ben definito e braccia assai robuste. Occhi marroni, lunghi capelli neri. In volto due cicatrici: una sullo zigomo sinistro, l’altra in fronte. Una donna. Alta non più di un metro e settanta. Piedi piccoli e gambe esili. Vita larga, forme rotonde. Due seni grossi e sodi. Nudi. Capelli corti e biondi. Occhi grigi, come quelli di alcuni gatti. Li guardavo perplesso. Li osservavo ammirandoli per la loro naturalezza. Per alcuni secondi restavo pietrificato. Non parlavano. Con la testa mi facevano senno di seguirli. Una giornata intera senza proferir parola, in luoghi nei quali la pazienza è la strada da seguire, l’unica esistente. La donna diceva soltanto poche parole: A tarda sera ero leggermente frastornato. Ero capitan Nessuno e forse ritrovavo la strada del ritorno.