Una Sega Pazzesca
Prima di ogni racconto, esiste un fatto. Un evento, nel mondo lì fuori o in quello nella nostra mente, a cui cerchiamo di dare un senso costruendo una storia. Non credo esista un altro modo per dare continuità all’esperienza umana. Magari per esprimerla, ma non per capirla. Tutto ciò che non può essere raccontato è estremamente pericoloso: scrivetevelo su una mano con un pennarello indelebile e leggetelo ogni mattina, stampatevelo in testa come quelle preghiere che vi insegnavano da bambini e che non capivate -poco importa, dovevate impararle e basta- perché a mio parere questa è una delle poche cose che unisce tutti gli esseri umani, al netto delle loro splendide unicità.
Ma che cos’è ciò che non può essere raccontato? Io credo sia qualcosa a cui non si è riuscito a dare un senso, un pezzo che lascia incompleto il tuo puzzle e anzi, continua a fluttuarti dentro, amplificandosi e influenzando il tuo comportamento. Avete mai provato la sensazione di essere portati ad agire in un certo modo, o a provare sensazioni che sentite inappropriate per il momento, senza avere ben chiaro il perché? Ecco, probabilmente c’entrano qualcosa quei fluttuanti e opprimenti attimi rimasti indecifrati. E non ci va tanto meglio sul lato opposto. Perché una cosa puoi e te la puoi raccontare in tanti modi (e senza dubbio la maggior parte delle volte lo fai nel modo giusto) ma, com’è umano, puoi anche sbagliare.
“Se pensi che il mare ti inghiottirà, passerai l’intera vita senza mai prendere il largo”
Del resto cosa sono le incomprensioni se non vedere le stesse cose con occhi (o forse dovremmo dire occhiali) diversi? Ed è del tutto naturale, e nonostante questo si vive, perché questa è vita.
Ma questa lunga premessa ci aiuta a capire una cosa: noi di quell’attimo, di quel qualcosa che viene prima di tutte queste chiacchiere, dobbiamo avere un gran rispetto, quel rispetto che si deve a tutto ciò che è capace di farci del male. Perché alcuni attimi sono come cavalli imbizzarriti: cerchi di domarli, ma loro ti scaraventano a terra con una forza e una semplicità disarmante, come se tu fossi solo un leggero fastidio da scrollarsi di dosso, appena percepibile. Ti ritrovi al suolo e per un momento, uno solo, non pensi a niente. Poi la tua testa ricomincia a lavorare, cerchi di mettere insieme i pezzi e di capire che ruolo interpretare. Perché ce n’è sempre uno: la vittima, il carnefice, l’indifferente, il complice, il saggio, l’idiota, il finto idiota, l’ironico, l’auto-ironico, il geloso, l’innamorato, l’amante, l’amico o tutte le cose insieme.
E che cos’è tutto questo se non un’enorme sega? Un’ impressionante mole di lavoro che la nostra mente fa per dare senso a qualcosa che è durato solo pochi attimi, come una scena, una frase, un gesto. Uno sforzo che rischia anche di essere vano se non fuorviante, e che eppure è necessario per tollerare un’angoscia, quella di non capirci niente e di sentirsi indifesi, che altrimenti sarebbe intollerabile.
Una volta però ho trattenuto quell’angoscia e ho deciso di guardare in faccia quel momento, quel poco che basta affinché capissi che tutte le spiegazioni che mi sarei dato non avrebbero mai cancellato del tutto quella sensazione dentro di me. E allora ho posato la sega nel retrobottega. Ormai ne è pieno, ogni tanto viene qualcuno e ci lascia la sua e noi qui, come sempre, conserviamo. Se passate, non dimenticate di posare le vostre.