Il negozio di dischi (galeotti furono i Cure)
Quando ero un ragazzotto la parola mp3 non aveva senso compiuto. C’era un gruppo hard rock di nome Mc5 e nei film di guerra americani si vedevano soldati con una fascia bianca al braccio e la scritta nera MP, che stava per military police. Però il 3 non c’era verso di farcelo entrare, quindi la musica si ascoltava solamente tramite radio, Cd e musicassette. I negozi di dischi pullulavano di eterogenea fauna locale e i commessi avevano il loro bel da fare a seguire tutte le richieste degli avventori. Il mio giorno dedicato alla discografia era il sabato pomeriggio. A quei tempi i miei giovani concittadini trascorrevano il giorno reso celebre dal Leopardi percorrendo a mo di gregge la via pedonale della città (in gergo “la vasca”) per scattarsi ipotetiche fotografie con non ancora esistenti smartphone da pubblicare, rigorosamente filtrate, su futuribili social network. A me ovviamente tutto ciò faceva cagare. Quindi trovavo un paio di complici, per lo più metallari (loro, io no) e andavo nella strada di fianco, dove c’era un piccolo ma rifornito negozio di dischi.
Non ero solo nella mia protesta all’ordine costituito. Dentro quel negozio alcuni volti si ripetevano immutati ogni sabato pomeriggio. Io entravo, controllavo presenti e assenti, quindi sgattaiolavo dietro le altrui schiene e mi piazzavo davanti all’espositore più a sinistra, quello dei generi punk e grunge. Così passavo un’ora o forse più rovistando, studiando, immagazzinando nomi, titoli, copertine e stilando ipotetiche liste della spesa quasi mai evase. Perché vi do ragione quando dite che con la lira si stava meglio, ma i dischi costavano comunque tanto e i genitori nascevano con le braccia più corte di adesso.
Un giorno me ne stavo a scartabellare tra Soundgarden e Sonic Youth quando accanto alla mia vedo una affusolata mano di esemplare femminile accarezzare l’intera fila della lettera C soffermandosi in particolar modo su i Cure. Non potevo fare a meno di seguire quelle dita nella loro cernita musicale e quando il fortunato album Faith si erse dal mucchio sollevato da quelle celestiali palme ne seguii l’incantevole movimento come il più rimbambito dei cobra indiani. Così finalmente vidi i capelli castani riccioli, il nasino francese, gli occhi marroni e quant’altro la memoria non mi permette di rammentare. I Cure, anch’io ascolto i Cure. Cioè no, ma vorrei ascoltarli. Sono nella mia lista della spesa da almeno tre mesi. Se solo mi alzassero la paghetta. O se mia nonna scendesse da quel cazzo di
I Cure, anch’io ascolto i Cure. Cioè no, ma vorrei ascoltarli. Sono nella mia lista della spesa da almeno tre mesi. Se solo mi alzassero la paghetta
Va da sé che non dissi nulla. Fissai, seguii con lo sguardo, i piedi e il cuore chi mi aveva insegnato che esistevano donne che ascoltavano i Cure e non facevano avanti e indietro per una cazzo di strada in attesa del giorno in cui Instagram avesse reso tutto più bello e finto. I giorni seguenti si rivelarono alquanto confusi. Passavo con la velocità mentale tipica degli adolescenti tra l’estasi mistica di un Dante e la libidine pecoreccia di un Pietro Aretino. Non capivo se quello sfarfallio dalle parti del piloro era amore o solamente un calesse. Ma non pensavo ad altro. Pensavo che l’avrei conquistata con la mia lista della spesa, che avremmo perso la verginità insieme, che avrei baciato quelle mani e le avrei poi fatte scivolare laggiù dove piaceva a me, che l’avrei protetta, esposta come un trofeo, che le avrei dedicato una poesia, che ci saremmo rubati l’anima a vicenda e l’avrei annusata, accarezzata, amata, morsicata, succhiata per il resto dei nostri giorni.
Il sabato dopo la ritrovai ancora là, indecisa tra gli album Faith e Wish. Scegli Faith, non c’è paragone. Sentivo l’ansia da prestazione sfondarmi l’epiglottide. Mi piazzai di fianco a lei, come il sabato precedente, ma ai suoi occhi ero invisibile. Scegli Faith, non c’è paragone. Quindi le squillò il cellulare che per la miseria già esisteva e un sms la invitò non so dove e non so con chi ma in fondo al testo sbirciando trovai un terrificante tat. Ti amo tanto.
Se ne andò via con Wish, lasciando Faith e il sottoscritto davanti a un espositore ricolmo di Cd punk e grunge. Decisi di dare fondo alle mie riserve liquide e acquistare il povero Faith, che non era in cima alla lista ma in quel momento importava poco, perché io e lui eravamo legati da una sorta di cameratismo sfigato.
Tutt’ora penso che Faith dei Cure sia un album sottovalutato. Come quel ragazzo di ormai diversi anni fa.