“Nessun requiem per mia madre”: fra l’amore e l’odio, un nodo
Anno nuovo, nuovi buoni propositi e vizi da cancellare, ma come costante restano i libri e le letture.
Inizio l’anno con la talentuosa Claudileia Lemes Dias, autrice di Nessun requiem per mia madre, edito da Fazi.
La storia narra di una famiglia apparentemente normale, la scena si apre con il funerale della madre di Franco. Subito dopo, però, è la madre stessa a prendere parola prepotentemente e a narrare la sua versione -alterata, come vedremo- dei fatti. Franco è infatti è uno dei tre figli di Massimiliano e Genuflessa ed è fidanzato con una ragazza straniera che la madre non è intenzionata ad accettare, legata visceralmente e patologicamente alla propria prole. Che le sue origini siano le stesse dell’autrice lo si intuisce fra le righe, alla donna infatti non è concesso un nome né un’identità definita, è continuamente controllata, pedinata da Genuflessa, definita “donnaccia”, “puttana”, “quella”, ma mai osservata veramente.
La cosa che mi ha sorpreso è che Claudileia Lemes Dias abbia deciso di segnare le tappe del percorso della protagonista del suo romanzo affibbiando ad ogni capitolo uno dei Dieci Comandamenti, e che lo abbia fatto sottintendendone l’infrazione da parte della protagonista stessa, senza però schierarsi personalmente contro la religiosità, da cui in sede di intervista ha ammesso di accogliere gli aspetti più positivamente umani. Quello che l’autrice prende di mira nel personaggio ambiguo di Genuflessa, infatti, è il suo narcisismo perverso che la porta a lasciar emergere il peggio di sé, a farsi attrice di ruoli compassionevoli mentre trama nel dettaglio piani di vendetta gratuita.
L’autrice mi spiega da subito che quello dei comandamenti è uno stratagemma iniziato per gioco e portato avanti mano mano che, scrivendo, ci prendeva gusto. La mia curiosità si sposta allora altrove: che effetto fa vedersi da fuori ed applicare a se stesse gli stereotipi peggiori che vengono applicati alla propria nazione? L’effetto di una critica, sì, ma ancora prima di un personalissimo sfogo, spiega l’autrice:
Nessun Requiem per mia madre è la storia di un nodo in ogni senso che questa parola assume
Se poi la ragazza non compare con un’identità definita, i nomi di Genuflessa e dei suoi familiari sono l’ennesima strategia che l’autrice utilizza per ribaltare, lasciando che da questi emerga il contrasto con la loro natura. Capovolti i comandamenti, capovolta l’ottica di narrazione, capovolto il nesso fra nome e carattere che ne è portatore, il romanzo della giovane autrice, sebbene drammatico, riesce a strappare quel sorriso amaro che supera la comicità per farsi, pirandellianamente parlando, umorismo.
Genuflessa, ministro dell’Eucarestia, manda parenti e conoscenti a spiare la giovane ragazza, falsifica prove che ne infanghino la reputazione, improvvisa scenate di gelosia o finge malesseri pur di concentrare su di sé le attenzioni di un figlio, adulto da tempo, che sembra voler prendere le proprie scelte di vita. Spia, commissiona citofonate anonime, vuole conoscere ogni frequentazione dei figli adulti -figli i quali mangiano soltanto quello che cucina lei e indossano abiti comprati insieme- sceglie lei i regali di Natale che i suoi figli devono fare.
I fratelli di Franco non sembrano intenzionati a porre fine a questa condizione, così quello di Franco risulta atteggiamento anomalo -altro capovolgimento-, ma il lettore sa che il momento in cui rimarrà senza parole non sarà quello in cui Franco si ostina nella sua relazione con la giovane ma quelli, ripetuti, in cui i suoi fratelli obbediscono alla lettera all’ordine metaforico della madre di spogliarsi, accettano di farsi complici dei suoi piani di spionaggio, indossano e comprano soltanto ciò che Genuflessa vuole e destinano a lei ogni loro guadagno lavorativo.
La realtà la leggiamo nelle parole della compagna di Franco:
“Ho l’impressione di vivere assieme a un bigamo, maledizione! Hai sempre la testa puntata verso la tua famiglia. Non riesci a essere libero, a comportarti come un padre normale.”
Addirittura nell’attaccamento alla madre di Franco, che risulta essere il ribelle della situazione, c’è del patologico. Lui però ne è cosciente e, nella minuscola parte di romanzo in cui gli viene lasciata la parola, racconta:
“Per preservarci dal dolore ci aveva condannati all’isolamento, e la claustrofobia dei luoghi familiari non ci aveva fatto incontrare neanche tra noi fratelli. […] “L’ammonimento originario, assimilato fino al midollo, era semplice: c’eravamo solo noi e dovevamo difenderci dal resto del mondo, tutto quello che era fuori dalla nostra casa. Il primo risultato fu l’impenetrabilità dall’esterno; il secondo un’incomunicabilità interna.”
Una madre megalomane che cresce dei figli anaffettivi, quindi.
Ma Nessun requiem per mia madre è anche la storia di un nodo, in ogni senso che questa parola assume.
Nel libro è forte il concetto del nodo su più livelli, da quello concreto, materiale, a quello simbolico del legame viscerale fra consanguinei. Cosa è un nodo? Quanto avvicina e stringe e quanto invece strangola?
Ogni generazione lascia all’altra il duro compito di sciogliere i loro nodi, basta guardare ciò che accade oggi, il prezzo che le nuove generazioni devono pagare per i privilegi che si sono concessi le generazioni passate. Come il personaggio di Franco ogni figlio prima o poi si pone il problema: “Quando finisce il mio ruolo di figlio e quando inizia quello di marito/moglie e di padre/madre?”. Per molti uomini e donne questo è un grande nodo da sciogliere, direi che si tratta dell’emblema della loro esistenza. Dovrebbe essere facile scioglierlo, tuttavia, a volte i genitori non sostengono le scelte sentimentali e lavorative dei figli, ponendo un numero interminabile di condizioni e ostacoli “a fin di bene”. Io non credo che i legami sanguini giustifichino tutto. Non credo che “l’amore materno” giustifichi la castrazione psichica di un figlio o la privazione dell’autonomia di una figlia con valanghe di sensi di colpa. Non è un caso se quando nasciamo il nostro cordone ombelicale viene tagliato di netto immediatamente. Restare attaccati è impossibile, significa la morte della mamma e del bimbo. Si tratta di una metafora bellissima. Il bambino piange, ma è libero. La mamma piange, ed è libera. Cercare di incollare nuovamente il cordone con delle strategie educative disadattate è follia o perversione.
Che rapporto hai avuto col personaggio di Genuflessa mentre lo delineavi? Genuflessa finge la pazzia o davvero il suo rapporto con la realtà è totalmente alienato?
Per Genuflessa, odio e compassione a fasi alterne. Per lei “la realtà oggettiva dei fatti” era ciò che s’inventava e chiunque sostenesse il contrario veniva annientato e denigrato. Nessun ombra di follia ma soltanto calcolo e controllo del suo territorio che si stendeva, guarda caso, fin dove arrivavano i suoi figli, la loro psiche inclusa.
Se da una parte la donna infatti vede la realtà in maniera deformata, come si evince dal passaggio che segue,
– L’ho trattato da adulto quando ancora non lo era, concedendogli troppa libertà, e ora crede di poter decidere la sua strada da solo, escludendomi completamente dalla sua vita e dalle sue scelte. –
Se dà alla realtà il senso che vuole,
– Quando viene messo di fronte alle sue azioni, mio figlio non dice una parola. Sa bene di aver fatto qualcosa di sbagliato, dunque si chiude a riccio. –
Se è a tratti cosciente della propria malafede, al punto di non farsi scrupolo nel dire “invento che…”, la sua cecità arriva addirittura al punto che, anche in caso di ammissione della realtà dei fatti, non rinunci comunque a declinare tutto secondo le sue ipotesi malpensanti. Dice infatti dei parenti della ragazza straniera, mentre si stupisce per la compostezza mantenuta di fronte al buffet laddove lei si aspettava un’abbuffata vorace:
Gli ignobili invitati si radunano lentamente davanti al buffet, senza scomporsi come pensavo. Ma si vede che le buone maniere che ostentano sono atteggiamenti appiccicaticci, non innati come in noi, persone di un certo livello. Le avranno velocemente apprese su qualche manuale di galateo comprato in edicola
L’autrice però non condanna senza contestualizzare: svela infatti, alle spalle di Genuflessa, un passato complesso, ferite difficili da ricolmare. Scopriamo che Genuflessa è diventata una persona perversa per difendersi da un mondo ostile, che riversa sugli altri un disgusto per sradicare un disgusto che prova per sé, per ammazzare i suoi fantasmi che emergono dal passato. E, se questo scorcio sul passato della donna ci fa intendere che la sua crudeltà non sia senza un perché, ci fa anche riflettere su cosa ne sarà di quei figli che vivranno, dal momento in cui si apre il romanzo, ovvero il funerale di Genuflessa, con il fantasma onnipresente di quella donna che si è fatta spazio sgomitando nella parte più intima di loro. Si osserva Genuflessa farsi, da megalomane, piccolissimo insetto indifeso di fronte ad uno sguardo del figlio che ricorda un orco d’infanzia, e ci si chiede in chi i suoi figli rivedranno la sua perversa ambiguità.
Narcisismo perverso, xenofobia, problemi di integrazione, dinamiche familiari anomale: i temi che la Lemes Dias affronta non sono di facile approccio, eppure il romanzo non risulta mai pesante, la vicenda scorre, ed è proprio questa leggerezza con cui voltiamo le pagine che stride con la pesantezza di ciò che leggiamo, dei segreti indicibili, dell’ordinaria follia che si cela, come spesso accade, dietro una classica famiglia per bene.
Alle spalle di Genuflessa, un passato complesso, ferite difficili da ricolmare
«La mia vita non è una tua concessione. Io non sono una tua proprietà. Vivrò al di là e indipendentemente da te e riuscirò a essere felice, vedrai. Non commetterò l’errore di odiarti, vivrò per essere migliore di quel che sono ora. Cercherò di essere un buon padre, un buon marito, un buon nonno o un buon signor nessuno, ma almeno, e questo mi basterà, mi sentirò un uomo, mamma. Un fottuto U-O-M-O. Ti perdono e ti ringrazio per avermi lasciato qualcosa in cui credere. Qualcosa che è il contrario di te»
La più grande dichiarazione di odio che è rivelazione di un amore verso la vita. Messi da parte “lauree, barche, pellicce, gioielli, ville, viaggi, orologi, penne d’oro, macchine, titoli, prestigio, onorificenze”, messo da parte il dramma di una famiglia disastrata, Franco volta pagina, ma il libro si conclude qui, e a noi non resta che fare il tifo per lui.