Tutta questione di “diritti”
C’è sempre nelle parole un’alterazione rispetto al significato originario. Qualcosa che il tempo ha stratificato sul concetto primordiale, fiaccando o esaltando parte o tutto il concetto. Una parola che ha seguito questa sorte è “diritto”. Che nasce col suo significato geometrico, del porre in linea, mettere in modo giusto, dal quale concetto deriva poi il verbo “dirigere” e quindi anche governare.
Ma esiste anche la versione più astratta, quella che solitamente si invoca quando si ritiene che ci spetti qualcosa, cioè un “diritto”. E qui il termine esprime l’idea di cosa giusta, retta, ragionevole, equa. Ma poi, nella realtà, queste etimologie si perdono e il termine giuridico di diritto si estremizza, perde spesso di ragionevolezza, per assumere l’idea di spettanza a prescindere dal resto. Si è perfino coniata una espressione : “stagione dei diritti”, a significare un momento storico nel quale si arricchisce la richiesta di “spettanze”, del “dovuto”. Perché i “diritti” non procedono in modo lineare, razionalmente e temporalmente, ma a sbalzi, tra accumuli e vuoti regressivi. Perché chi li sostiene vuole approfittare al massimo del momento favorevole, mentre chi li osteggia si comporta similmente quando capisce che può ridurli. Il mondo del lavoro è pieno di questi andirivieni socio economici. Un po’ come le passioni, che si affollano e si sgonfiano con ritmi saltuari.
Certo, la speranza razionale, il desiderio medio, sarebbe di poter avere uno sviluppo ordinato delle cose, nei sentimenti come nelle acquisizioni di diritti. Ma non è così, ma non per un fato malvagio. Perché siamo degli estremisti temperati e non dei moderati estremizzati. La nostra ansia è sempre per la totalità, per l’irrequietezza, per l’incontentabilità. Sempre di più, fino al successo totale, qualunque sia. E non importa se il diritto sia un “torto”. La passione non conosce ragione.