Perché diciamo mobbing
Il neologismo della settimana è mobbing. Ovvero, secondo Treccani, «L’affollarsi intorno a qualcuno», ma anche «assalire, malmenare e aggredire», «accerchiare», dal verbo inglese to mob. Usato anche in etologia, assume una sfumatura più scura: “insieme dei comportamenti aggressivi assunti da un gruppo di potenziali prede (per es., da uccelli passeriformi) nei confronti di un predatore (per es., un falco) per intimorirlo e dissuaderlo dall’attacco”.
È probabile che l’abbiate già sentita negli ambienti di lavoro, dove il significato cambia nuovamente colore e diventa: persecuzione ed emarginazione nei confronti di un singolo individuo da parte del gruppo in cui è inserito. Nell’ambito di questa accezione più vessatoria del termine esistono anche i mobbers, ovvero il datore di lavoro o i colleghi che perpetuano questa pratica persecutoria nei confronti del mobbizzato. Il fine è quello di emarginare il singolo costringendolo a uscire dall’ambito lavorativo.
È utile questa nuova parola? Sì, basti pensare alla totale assenza (in italiano) di un’espressione che con un solo termine riassuma il concetto sociologico di mobbing che è oggi più diffuso: questo prestito ha ragione di esistere, quantomeno per una questione –del tutto naturale– dell’economia di parole ai fini discorsivi. C’è da chiedersi piuttosto, come chiamavamo prima dell’avvento della parola inglese “mobbing” questi tipi di comportamento.
È bello come neologismo? Quella terminazione in -ing fa troppo inglese per permetterci di fare la parola completamente nostra e dimenticare che viene da una lingua straniera. Tuttavia, considerando che stesso nell’inglese le origini sono latine (mōbile vulgus) e che non incontriamo troppe difficoltà nella pronuncia, la percezione che ne deriva per noi italofoni è quella di un significante con la bombetta che prende il tè alle cinque : si vede che è forestiero, ma gli diamo il benvenuto.