Sacralizzando il mondo
Quando si inizia una nuova avventura – o nella fattispecie una nuova rubrica – e lo si fa all’insegna della condivisione, mi pare di buon auspicio partire dal principio.
E così, trovandomi in Toscana, ho ritenuto fosse tempo di incontrare il mio caro Prof.
Lui c’era proprio in quegli anni in cui tutto ha preso forma e avvio, la scrittura ma prima di quella, il pensiero. E’ lui che lo ha incoraggiato, e forse, prima di qualunque altro, “sbozzato”.
Il prof, ovvero il mio professore di filosofia al Liceo Scientifico Sperimentale in quel di Livorno, è Giancarlo Sacripanti.
Arrivò giovanissimo nella mia scuola, fresco di studi e di entusiasmi; ce li trasmise senza mezzi termini, tanto i saperi quanto gli entusiasmi. E non chiedetemi ora quali sono stati più importanti. Credo entrambi.
Sparavo un sacco di cazzate, e lo faccio anche ora, sulla soglia dei settanta; non sono cambiato affatto in quel senso. L’ho fatto anche all’ospedale dovendo affrontare una malattia, ho sparato cazzate così grandi, che il primario, vera eccellenza italiana dell’oncologia – dal quale mi aveva portato un mio altrettanto eccellente ex-alunno che mi ha seguito in quel difficile percorso con sensibilità e competenza, oltre che con affetto – mi ha voluto operare di persona. Sosteneva che nell’espressione provocatoria di una centralità del mio essere fisico e pensante, ero capace di sacralizzare il mondo. Mi riconosceva un atteggiamento altamente spirituale.
Eppure intorno a quelle “bombe” di pensiero lasciato libero ci siamo incontrati, anche tu ne sparavi di belle; facevamo il giro dell’isolato, percorrendo i marciapiedi che costeggiavano il liceo, tu davi libero sfogo ai pensieri, li condividevi con me, alcune cose “geniali” si affacciavano nella testa di un’adolescente che non sapeva ancora scindere la propria forte capacità analitica dalle emozioni, troppe, che la popolavano.
Così Giancarlo dice di aver incontrato tutte “le sue donne”, come le chiama Mary, la moglie. Le sue “migliori” studentesse, dice lui, riconosciute sul piano di una sensibilità comune e di una stima intellettuale trasformatasi poi in affetto, affetto immutato che porta me ancora oggi a venirlo a trovare. Non ci siamo rivisti sin qui dopo le sue vicissitudini “sanitarie e salutarie”, seguite a ruota alle mie.
Lui c’era proprio in quegli anni in cui tutto ha preso forma e avvio, la scrittura ma prima di quella, il pensiero. E’ lui che lo ha incoraggiato, e forse, prima di qualunque altro, “sbozzato”.
Il cambiamento è dovuto alla chemio, crede, più che alla malattia stessa. Per lui – che l’ha fatta solo a scopo preventivo – l’ingresso nell’universo dei “chemioti”, come li ha battezzati, una setta segreta che usa un linguaggio in codice della paura e della speranza, è stato deflagrante. Ha finito da poco e una associazione di volontari lo ha invitato a restare a far parte di coloro che offrono assitenza e presenza alle persone in terapia. Il suo approccio solidale, comprensivo ma anche dissacrante e ironico, è stato molto apprezzato. Persone di tutti i sessi, le età e le estrazioni sociali si confidavano con lui, gli chiedevano consiglio, si divertivano e commuovevano del suo coinvolgimento, della sua capacità di stare vicino. Un uomo colto e dalla vita piena di interessi e idee, che diventa super-informato, stringe un forte legame con personale medico e paramedico, e si fa orecchio e portavoce di quel “marchingegno unico al mondo” che è la terapia. Non parli più del tuo male, stai attento al male dell’altro. E’ questo il segreto. Impari a spostare l’attenzione. Quella esperienza cambia totalmente, afferma.
Le sue passioni – la filosofia, il teatro, la politica – non hanno risentito di questi cambiamenti, anzi.
Da quando ha più tempo, lo studio, la meditazione filosofica e la scrittura che ne consegue sono decisamente fiorite, a queste lascia grande spazio. E’ una dimensione fondamentale, a cui si applica con disciplina ogni giorno subito dopo l’allenamento in palestra, al quale non rinuncia per permettere al corpo di riprendere vigore. Lui che frequenta il karate da quando faceva parte del servizio d’ordine di Berlinguer.
Quindi la filosofia sempre al primo posto. Ho portato a Giancarlo alcuni testi molto belli che risalgono ai tempi del liceo, e sui quali lui consigliava di prepararsi. Eravamo una classe di indirizzo scientifico, chimico-biologico, e lui quindi aveva scelto di affrontare autori e temi dell’epistemologia.
Il Circolo di Vienna mi ha dato tanto, ed è stato importante anche per me confrontarmi così profondamente con l’epistemologia. Ha plasmato certamente il mio modo di rapportarmi allo studio del pensiero.
Leibniz, Neurath. Ci dava da svolgere temi piuttosto ambiziosi, che io adoravo. Quando ho compiuto cinquant’anni mi ha chiamato e mi ha reso questi svolgimenti di filosofia, che aveva conservato gelosamente. Ma solo le fotocopie. Gli originali vuole tenerli lui.
Gli chiedo se tra le due restanti passioni della sua vita, il teatro e la politica, ce ne sia una più importante.
Il teatro, certo. Intanto è il contesto più rispettoso del mio spirito esistenzialista. Essere e apparire, la maschera e la verità interiore, sono sempre fondamentali per la mia ricerca. Poi fa parte della mia storia, della mia formazione, da sempre.
Originario di una famiglia di grande tradizione giuristica e culturale, a cavallo tra impero austro-ungarico e nuova Europa – suo padre aveva frequentato anche l’Accademia di Arte Drammatica – è cresciuto con la casa popolata di importanti personaggi, prima fra tutti Marta Abba, di cui suo padre è stato curatore, ma anche Anna Proclemer, Renato Guttuso, Achille Campanile, Carlo Cassola.
Come sai bene la mia esperienza di scuola di teatro è stata tra le prime in città, a Livorno. Tutt’ora mantengo un laboratorio teatrale, e produco sempre uno spettacolo ogni 27 gennaio per la Giornata della Memoria al Liceo Enriques, dove per tanti anni ho insegnato e sono stato vicepreside. Non posso nascondere la mia delusione per una società che nel teatro non crede più, che nega spazi, risorse. Fare teatro è diventato estremamente difficile, e se per farlo devo scendere a compromessi con finanziamenti, concessioni e così via, preferisco fare le mie piccole cose in piena indipendenza.
Resta la politica. In quella ancora crede, e si impegna. Lo invidio sanamente, dato che non mi sento rappresentata da nessun schieramento e non intravedo la mia idea in nessuna formazione.
Per me le ideologie sono finite proprio per mancanza di contrapposizione. Ma anche di rispetto. I poli ideologici si sono da una parte avvicinati, e dall’altra hanno smesso di rispettarsi. Oramai la politica si basa sul rancore – non sull’affermazione della propria verità, ma sulla distruzione di quella altrui – come ho scritto qualche giorno fa sul mio blog. Però la politica è partecipazione, non puoi regalare la tua vita agli altri. Se non partecipi, e non prendi parte, regali la tua vita. Volevo andare ai funerali della Solesin, mi sentivo coinvolto personalmente nel destino di questa ragazza, che aveva studiato a Trento come me, e condiviso tante battaglie sociali. Mia moglie me lo ha impedito, non ero ancora in buona condizione fisica.
è cresciuto con la casa popolata di importanti personaggi
Le ideologie sono finite, mi rimbrotta.
Eccheccavolo. Si sono fallite, prima di finire, e siamo d’accordo. Ma prima delle ideologie c’erano ancora le idee. E ora non ci sono più neppure quelle, mi rammarico.
Vedi forse questo un po’ te l’ho insegnato anche io; pensare con la tua testa, coltivare le idee, perché dovrei rammaricarmi ora, se anche sono diverse dalle mie? Ho cercato di insegnare la “giusta distanza” tra il pensare e il sentire. Questo attraverso la lettura di quei libri di filosofia che ancora ti porti dietro attraverso l’Europa.
Beh, in fondo, quando sono andata a stare in Germania a ventiquattro anni, cioè quando ero coetanea del giovane professore di filosofia che eri quando ci siamo incontrati, non nego che il senso di integrazione in quella cultura è passato proprio per la filosofia che mi avevi insegnato ad amare, e per la letteratura, replico.
L’ultima domanda sta per la musica.
Questa è una rubrica che prende ispirazione da un personaggio della musica, uno che amavo da ragazzina quando stavo nella tua classe, David Bowie. Qualche anno fa mi hai invitato a tenere una piccola conferenza su Musica e Pensiero, all’interno di un “Caffè Filosofico” che gestivi. Musicalmente dove ti senti rappresentato, oggi?
Da ragazzo a Trento ho studiato trombone, e la presenza di ottoni, di metallo, è sempre gradita per me, sia nella classica che altrove. Direi che la musica etnica rappresenta bene il mio ambito culturale attuale, di studio e confronto di culture e società. Amo molto il Klezmer, così come sono appassionato di pizzica. Sono sonorità che avvicinano oriente e occidente. Quando sei venuta a tenere la conferenza abbiamo fatto il gioco di andare alle radici culturali della musica. Ho indovinato diversi pezzi. Andare alle radici culturali della musica è come andare a cercare quelle del pensiero. Un’operazione filosofica.
Per fortuna è arrivata a casa Mary, che è il curatore di una delle più grandi biblioteche cittadine. Io e Giancarlo, come facevamo sempre da giovani, a forza di chiacchere ci siamo dimenticati di tutto. Sono le due, e lui non ha neppure pranzato.