L’oblio
La pioggia si infrangeva sul parabrezza, così fitta che i tergicristalli non riuscivano a rendere la visuale chiara al di là del vetro. Era venerdì diciassette. Essendo sempre stata superstiziosa prevedevo qualcosa di orribile. Ma ero con lui. Eravamo fermi in auto. Fuori il freddo intenso di quell’uggioso dicembre faceva appannare i finestrini, creando un gioco di luci e ombre ancora più tetro. Provai a rimanere calma; provai a non piangere. Lo guardai sperando che nei miei occhi potesse leggere la paura e il terrore. Sperai che si sarebbe impietosito davanti al mio viso da ragazzina, i lineamenti morbidi, le labbra bianche. Avevo solo quattordici anni e non sapevo perché ero arrivata a questo. Dentro di me sentivo che sarei dovuta andare via, scendere dall’auto e scappare nonostante la pioggia. Ma a quattordici anni resti immobile, in balia degli eventi. A quattordici anni hai solo paura.
Tra tutte le mie amiche, tra tutte le ragazze che frequentavano quel parco, tra tutte le ragazze del mondo, aveva scelto me, solo me, non parlava con nessun’altra. E per me lui era il primo. Fu il primo bacio, dolce, intenso, da favola
Fu il primo bacio, dolce, intenso, da favola. Al primo appuntamento mi portò a mangiare un gelato. Scelse un cono enorme, diceva che ero la sua principessa e per me doveva prendere solo il meglio. Ma ero piccola, troppo imbarazzata, la mia prima uscita con un ragazzo. Dall’emozione non capivo niente e con l’innocenza che solo una ragazzina inesperta poteva avere, decisi di prendere un unico gusto, il limone. Che ridere. Ci ridemmo su per tanti giorni ancora. Tra tutti quei gusti avevo scelto il più aspro, per di più in una quantità spropositata in quanto avrebbe dovuto coprire un cono in cui ne andavano almeno cinque. Ridemmo della mia scelta, fu comprensivo quando mi disse che avrei potuto buttarlo, che non si sarebbe offeso, e corse a comprarmi un altro gelato dei suoi gusti preferiti, più piccolo, più dolce.
Era pieno di attenzioni. Mi chiamava tutti i giorni, ci scrivevamo a ogni ora, mi ricaricava puntualmente il telefono pur di sapere cosa stessi facendo. Mi portava in giro, mi riempiva di regali, mi veniva a prendere a scuola.
Ma ogni volta mi aspettava in auto, lontano dall’uscita, in un luogo appartato. Nessuno doveva vederci. Nessuno doveva sapere di noi. Era il nostro segreto. Cosa avrebbero pensato gli amici se avessero saputo che frequentava una quattordicenne? Lui era grande; dieci anni sono troppi per la gente, ma non per noi. “Sei così matura, così donna”, mi ripeteva. Lui l’aveva subito notato.
Vedeva brillare nel mio sguardo qualcosa che non aveva visto in nessun’altra. E a me piaceva. I suoi occhi verdi, quelle mani così grandi, le sue continue attenzioni, sentivo di stare con un uomo, e ciò faceva di me una donna. Mi sentivo grande e mi piaceva. Ma ero una ragazzina. E lo ero anche quel venerdì. Mi costrinse a scendere dalla macchina, sotto la pioggia. Mi prese per mano, stringendola forte, come se potessi scappare da un momento all’altro. Eravamo di fronte un grosso cancello verde che si apriva su di un cortile trascurato. Davanti a noi una scalinata portava al primo piano di una fatiscente palazzina.
Era davanti a me, con i pantaloni già abbassati. Mi pietrificai nel vederlo semi nudo che si masturbava. Non sapevo cosa dire per evitare che accadesse. Non sapevo cosa fare. Lui mi raggiunse e mi strinse il viso con una mano
Era davanti a me, con i pantaloni già abbassati. Mi pietrificai nel vederlo semi nudo che si masturbava. Non sapevo cosa dire per evitare che accadesse. Non sapevo cosa fare. Lui mi raggiunse e mi strinse il viso con una mano.
Una bambola dagli occhi azzurri e dai lineamenti gentili. Senza anima. Senza più forze. Senza voce. Senza dignità.
Un uomo che mi sussurra t’amo ad un orecchio non mi avrebbe costretta, né percossa o violentata. Forse era proprio quello che volevo, forse le cose funzionano così. Lui da subito aveva visto in me una donna e quella donna non poteva deludere il suo grande amore