La teoria degli omini colorati
Me ne stavo seduto su un muretto scalcinato e non avevo di che fare, conversare e nemmeno pensare. Dondolavo le gambe appurandomi di colpire con i tacchi il muro a cadenza regolare e pensavo, questo sì, a come avrei occupato la mano sinistra terminata la sigaretta. Talvolta un’aria di Shostakovich mi sfiorava il timpano, tal altra era Hey you dei Pink Floyd a stuzzicarmi i padiglioni. In entrambi i casi, le labbra assecondavano il ritmo. Ovvero: tu tu tu turutututu turutututu nel primo caso, Hey you na na nananà na na nanna nel secondo.
Senonché dopo qualche minuto il cervello andò in astinenza da pensieri e cooptò nella sua ribellione contro il nulla il bulbo oculare destro. I due si misero a cercare combustibile per sua eminenza grigia e non trovandolo nell’antistante, macilento, prato, decisero di cercare altrove. Una cosa, una qualsiasi cosa, magari nel muretto dove poggiavo le natiche. Ma certo, il muretto. Quante cose si trovano sui muri. Favella, muretto mio bello, favella e fosse anche un cazzo da muro o il più irripetibile degli insulti a quella zoccola di Cinzia o a quella vacca di Lucia, tu, muretto delicato e anche un po’ sgretolato, esprimiti.
E fu così che il muretto, da una loco poco distante dal mio sedere, parlò. Mi si presentarono davanti agli occhi due figure
Coglievo nell’omino piccolo una fierezza e un senso di appagante realizzazione che nell’altro era lungi dall’apparire. E, in definitiva, una bellezza che a prima vista si era palesata piuttosto altrove
Felicissimo, il mio cervello si mise ad elucubrare e se sulle prime l’idea balzana di un piccolo e incapace Van Gogh sorpreso e solertemente sculacciato andò per la migliore, in poco tempo tra le sue sinapsi venne elaborata una ben più arguta considerazione.
Ora, all’inizio non avevo visto che il più grande dei due omini aveva spalle larghe e rotonde, un bel paio di braccia possenti e gambe diritte e lunghe. Solamente avvicinandomi potei notare l’altro omino, così piccolo da essere scambiato per una macchia, con gambe e braccia così vicine da distinguere a fatica i contorni. Poraccio, pensai, quale perfida mente ha potuto accostare il tapino a cotanta prestanza d’uomo?
Ma più osservavo quelle figure e più la mia idea cambiava. Pure nella sua esiguità, coglievo nel piccolo omino un senso di completezza e gioiosità che faticavo a rintracciare nel aitante suo compare. Questi, che sulle prime mi aveva colpito per la sua avvenente prestanza, ora mi pareva incompleto. Una camera d’aria. Una brioche vuota. Una promessa disillusa. Un niente.
Coglievo nell’omino piccolo una fierezza e un senso di appagante realizzazione che nell’altro era lungi dall’apparire. E, in definitiva, una bellezza che a prima vista si era palesata piuttosto altrove. Un’esistenza non si giudica dall’apparenza e soprattutto non la si giudica con paragoni inutili e insostenibili. Ho visto persone felici in posti orribili, nel fare lavori indegni, nel condurre esistenze che altri avrebbero definito banali. Ho visto disabili faticare per fare cose per altri semplicissime e ho visto nel loro sorriso la bellezza di un traguardo. E ho visto persone frustrate cercare la propria realizzazione seguendo le orme di altri. No, penso che l’importante sia avere una penna colorata con la quale riempire quello che abbiamo, grande o piccolo che sia. Riempirlo tutto. E penso anche che tutti noi abbiamo capacità e possibilità differenti dettate dalla genetica, dalla volontà e dalla fortuna, ma non è questo a fare di noi persone belle e vincenti. Rincorrere desideri che non ci appartengono, misurarci sull’altrui giudizio, ragionare con la testa di chi non ci conosce ci renderà grandi omini, ma quasi del tutto vuoti. Infelici. Brutti. La bellezza non è nell’immagine, è nell’insieme, nella completezza. Per piccoli o grandi che siamo, quanto più riusciremo a farcire il nostro perimetro, quanto all’esterno risulteremo appaganti alla vista. Vincenti. Alla base di tutto c’è la conoscenza di sé. Solamente chi conosce sé stesso può riempirlo. C’è una sola penna per colorare l’omino che siamo: i nostri occhi.
Avrei voluto fotografare i due omini, ma avevo il telefono scarico. Avrei voluto fumare un’altra sigaretta, ma il pacchetto era vuoto. Avrei voluto disegnare un altro omino di fianco e colorarlo tutto fuorché il cuore e le tasche e dargli il mio nome, ma ovviamente non avevo la penna. E poi il sole se ne era andato e il naso mi colava. E non avevo neanche un fazzoletto.