“ Fine pasto ” e spunti per un nuovo inizio
Scrivere di cibo è una moda, ma c’è modo e modo per farlo. Quando ho letto il titolo dell’ultimo lavoro di Vito Teti mi sono subito ripromessa di approfondire la questione. E, in effetti, non me ne sono pentita.
Se da una parte Fine Pasto del professor Teti è un sunto di quanto già detto dal noto collega Montanari e da tanti altri prima di lui, questo libello ha anche una sua grande rilevanza in termini di “post Expo”. E con il termine si intende in senso lato tutto ciò che ha seguito l’annuncio che la tematica centrale dell’Esposizione Universale del 2015 sarebbe stata la nutrizione.
Lo stesso titolo sembra evocare una fine che, come risaputo e come sottolineato da Teti stesso, è per sua natura un nuovo inizio. “Bisogna decifrare l’inestricabile nesso tra necessità e sacralità del cibo per poter affermare, dopo una lunga rottura, dopo stravolgimenti epocali, un nuovo, possibile e condivisibile senso del mangiare per vivere”, si legge nelle primissime pagine.
Quello che spicca nella tesi di Teti è proprio il tentativo di sottrarsi alla diffusa smania di estremismi, dal rifiuto radicale all’accettazione totale dell’alimentazione del futuro e delle sue innovazioni apportate dallo strumento biotecnologico.
Teti riporta alla realtà coloro che peccano di un facile sentimentalismo e dipingono il passato campagnolo come una meta a cui tendere, in un impossibile viaggio a ritroso nel tempo.
“Quelli che quel mondo non hanno vissuto, oggi lo narrano con nostalgia, lo evocano come un universo equilibrato, ordinato, sobrio, basato su un rapporto corretto tra uomo e natura, uomo e animale. Non era cosí.”
Facilmente ci si dimentica che dietro l’apparente equilibrio salutare della vita di un tempo si nascondevano sacrifici e fatiche difficilmente sopportabili. Un esempio su tutti è quello della monotonia dei cibi: se oggi mescolare gli avanzi è “un’arte culinaria legata all’abbondanza e al rifiuto snob dello spreco”, un tempo l’alimentazione esclusivamente basata sul mais ha portato in Veneto la piaga della pellagra.
Oltre a non essere auspicabile, infine, tornare in tutto e per tutto al passato è impossibile: spiega Teti che “nel xx secolo la popolazione è quadruplicata, il consumo di energia è cresciuto sedici volte, le emissioni di anidride carbonica di tredici, il consumo di acqua di nove.”
Dal periodo dei digiuni obbligati, si è passati oggi alle diete autoimposte. Quella grassezza che Levi nel suo Cristo si è fermato ad Eboli tanto lodava – «L’essere grasso è qui il primo segno della bellezza, come nei paesi d’oriente; forse perché per raggiungere la grassezza, impossibile ai contadini denutriti, è necessario essere signori e potenti» – è oggi causa di marginalizzazione e discriminazione. Vito Teti riporta un fatto di cronaca risalente al 2014: in un autolavaggio di Napoli viene aggredito con un compressore da alcuni ventiquattrenni un ragazzo di 14 anni. Gli hanno detto:“guarda come sei grasso, ora ti gonfiamo ancora un po’”.
Da Marilyn Monroe si è passati a Twiggy e a chi ha poi preso il suo posto. Dall’alternarsi di Quaresime e Carnevali, viviamo oggi in un Carnevale perenne che, in mancanza del suo opposto, si vuota di senso.
Dalle sagre siamo oggi all’hashtag del #foodporn, a fruttariani macrobiotici, crudisti, localivori, gluten free, nocarb. Per non parlare dei vegan sexual che non fanno sesso con partner carnivori per non essere contaminati. Teti cerca di spiegare: “[…] Sono in gioco un miscuglio di fobie, ossessioni, rinunce, privazioni, sensi di colpa, paure di contagio. […] Innegabile che dietro certe scelte si nascondano paure, moventi irrazionali, ricerca di alterità e di esotismo, mode, snobismo, anche interessi di industrie, produttori e imbonitori. Innegabile che certe diete anche costose e faticose ed elaborate sono lussi di chi ha avuto la pancia piena e di chi può permettersi mille stravaganze.”
Per non parlare dei cook show. “Nella cucina trasformata in arena si affetta, si trita, si cuoce, si guarnisce, si impiatta con il cronometro alla mano. Ma non si mangia mai: o, meglio, mangiano i giudici, appena, per esprimere il giudizio e decidere chi vince e chi perde.”
E, se un tempo la bocca era l’organo che provvedeva all’alimentazione ed alla comunicazione linguistica, oggi tra le due c’è sempre più scissione. Nella “Babele alimentare” in cui ci troviamo, più che parlare si parla del mangiare, si cerca a parole una purezza che nei fatti annulla la sostanza del cibo ed il suo carattere culturale, rituale e conviviale. E se un tempo i ricchi erano pingui, oggi sono i poveri ad essere obesi. “Se i poveri del mondo parlano di cibo perché non hanno da mangiare, i ricchi dell’Occidente opulento ne parlano perché hanno troppo da mangiare e ne hanno paura.”
Teti, lungi dalla retorica, riprende in parte Curzio Malaparte che definì così l’importanza della fame nella civiltà del popolo italiano, nella sua produzione artistica e culturale. Se le cose stanno così, è allora proprio la mancanza di questa fame a sgretolare l’identità? È una lettura forse azzardata, ma non impossibile.
Passando attraverso i capisaldi della letteratura “della fame”, italiana ed internazionale, Teti afferma come a “spadroneggiare nella bocca dei ceti popolari non è più il mangiare bensì il parlare: il discorso sul cibo è diventato pervasivo”. Se un tempo il cibo era intrinsecamente legato alla sfera sacra, alla devozione, al ricongiungimento rituale con i morti, ai quali venivano offerti pani e dolci nello “struggente desiderio dei vivi di mangiare e bere con i loro defunti”, oggi la condivisione del cibo avviene a malapena con i viventi: si va avanti con prodotti pensati e confezionati per singoli, diete individuali che riecheggiano tuttavia qualcosa del desiderio di rinuncia ed autopunizione -dovuto però stavolta all’eccesso dell’offerta alimentare-, a ristorante ognuno sceglie dal menù alla carta cosa mangiare, la scienza medica e nutrizionale ci mette del suo dando consigli mirati e perlopiù personalizzabili per ognuno, alimentando la soggettiva ricerca della “giusta alimentazione”. Teti cita Baudrillard nell’esempio della solitudine “dell’uomo che si prepara pubblicamente il pasto, su un muretto, sul cofano di un’automobile, lungo una cancellata, solo. È uno spettacolo che si vede dappertutto, qui, ed è la cosa più́ triste del mondo, più triste della miseria; più triste del mendicante è l’uomo che mangia solo in pubblico. Niente di più contraddittorio rispetto alle leggi dell’uomo o dell’animale, perché le bestie hanno sempre la dignità di spartire o di contendersi il cibo. Colui che mangia solo è già morto.”
Sentenza estrema, questa, con cui ognuno può essere d’accordo o meno. Fatto sta che, stando a Teti, ciò che si è spezzato negli ultimi decenni è quel patto necessario tra uomo, animali, ambiente, e la consapevolezza dell’interdipendenza e della condivisione di uno stesso spazio vitale.
Ma Teti, come si è detto, non va per gli estremismi: riporta, fra tutti, l’esempio di Samantha Cristoforetti e del suo caffè nello spazio, e commenta: “Il bisogno di mangiare e bere in compagnia trova un nuovo senso e una nuova valorizzazione proprio nelle persone in fuga, in viaggio, sradicate, in cerca di appaesamento. Le periferie delle nostre città e anche i paesi più sperduti elaborano forme di convivialità e di socialità per attenuare il senso di solitudine e di smarrimento, il timore di perdersi. Un bisogno di riorientarsi a partire dalla memoria e dalla nostalgia del mangiare comunitario.”
Che è poi, in fondo, lo stesso bisogno di riorientarsi di tutti coloro che approdano alle sponde del Mediterraneo italiano, per i quali risulta adatta una frase che l’autore cita da De Amicis, il quale però la riferiva agli italiani: “La maggior parte di loro non parte «per spirito di avventura», ma costretta «a emigrare dalla fame“, dopo essersi dibattuta inutilmente, per anni, «sotto l’artiglio della miseria»”.
“Fine Pasto” di Vito Teti non è soltanto un saggio di antropologia alimentare, ma cavalca l’onda dell’attualità, dalla cronaca italiana ai fatti di politica internazionale -si notano, su tutti, riferimenti attualissimi all’ISIS-, della narrativa, l’analisi storica e sociale, i prodotti mediatici, i contadini e le astronaute, gli chef e le produzioni cinematografici. E soprattutto, “Fine pasto” è un libro umile, che senza fare troppo rumore apre la strada, con modestia, all’ipotesi di un “nuovo pasto”, che non sia ancorato ad un passato idealizzato ma che neanche lo dimentichi del tutto.