Il nuovo anno
Si avvicina il nuovo anno. Il 2016 D.C. Una convenzione, che peraltro non tutti condividono. Perché contare gli anni presuppone un inizio. E ciascuno può scegliere quello che vuole. E gli occidentali hanno scelto la data di nascita di Cristo, peraltro fissata nel quarto secolo dal monaco Dionigi il Piccolo, e approvata più tardi da papa Giovanni II. Se invece si è dei creazionisti, si tende a scegliere i calcoli di James Ussher, un vescovo anglicano del XVII secolo, che ebbe la pazienza di contare a ritroso i tempi dei patriarchi della Bibbia, arrivando alla convinta soluzione secondo la quale la terra esiste dal 23 ottobre del 4004 avanti cristo.
E altri, che si fondano su fonti religiose, concordano su questa esistenza che durerebbe da circa seimila anni. Il che non concorda molto con chi data la terra indietro di 4,8 miliardi di anni. Differenza non banale. E la conciliazione è impossibile, perché diversi i criteri. E quindi, che anno festeggiamo? In realtà non festeggiamo un anno particolare, tanto più che in passato molti calendari vedevano il primo dell’anno con l’inizio della primavera. Ciò che inevitabilmente ci attira è il rito: un insieme di pensieri, sentimenti, credenze, azioni, gesti ripetuti, convenzioni che ci danno il senso dell’evento. Gran parte dei nostri comportamenti sono rituali, sistematici, ripetitivi, così da offrirci delle certezze, dei punti fermi ai quali ancorare la nostra esistenza. Gesti riconoscibili, con valore collettivo, festivi e festosi che si portano dietro antichi significati di rinascita, di riavvio, di ritorni. L’anno nuovo è comunque quello della speranza, del futuro: in alcuni casi si brucia in effige quello vecchio a significare la fine di un tempo trascorso. Questo noi siamo. Protesi al futuro, curiosi e timorosi dell’ignoto, ma felici che ci sia. Questo è il vivere da umani. Consapevoli della loro incertezza, ma in fondo convinti che il domani sarà meglio di ieri.