La pizza, com’era una volta
Si sa che la perfezione non è di questo mondo, e questo pare ancora più vero quando ci si trova in cucina. Un pizzico di sale in più può rendere la minestra immangiabile, e quei pochi secondi impiegati a rispondere al telefono – che, dannazione! Squilla sempre al momento sbagliato! – faranno di quel sugoso arrosto una suola di scarpa rinsecchita.
Che poi le pietanze più povere e semplici siano anche quelle in grado di mettere a dura prova anche lo chef più provetto, è verità più vera del vero. Altro che nouvelle cuisine: per capire se sapete stare ai fornelli la prova del nove sarà la pasta al pomodoro, un aglio e peperoncino, o anche un cacio e pepe romanesco: quando poi gli ingredienti sono più di due va a finire che s’aggiustano l’uno con l’altro, e a far confusione alla fin fine siam bravi tutti.
I piatti poveri hanno però insieme il pregio e il difetto d’essere anche, di solito, i più antichi, non essendo peraltro ipotizzabile, in quest’epoca di benessere, l’invenzione d’un nuovo piatto povero. Vetustà che è pregio perché riguarda piatti forti di tradizioni pluricentenarie; che è difetto perché i molti anni andati han fatto sì che se ne siano generate varianti infinite, che portano ad acerrime contese e rivalità regionali per accaparrarsi l’ambito titolo di ricetta originale.
Se però campani, emiliani e siciliani faranno a schiaffi per stabilire chi abbia inventato la parmigiana di melenzane, e mentre in Liguria la questione del burro nel pesto può dar luogo a faide familiari, così non è però per la pizza, rispetto alla quale nessuno si sognerebbe di contestare le nobili origini partenopee.
Quando si parla di pizza, si parla innanzitutto di Margherita.
La questione è atavica e origine di grandi gelosie, ma a costo di farmi qualche nemico non ritengo impossibile sgombrare il campo, intanto, da qualche equivoco.
Intanto, scopriamo le carte. Quando si parla di pizza, si parla innanzitutto di Margherita. Che sembra pizza semplice ma non lo è, come tutta la cucina povera, e la quantità e la provenienza degli ingredienti, lo spessore e l’elasticità dell’impasto e la sua lievitazione, i tempi e la temperatura di cottura, e finanche il tipo di legna ad ardere saranno altrettanti variabili che incidono sulla realizzazione del piatto perfetto.
Una delle questioni che è foriera di maggiori discussioni riguarda la dimensione e la consistenza del cornicione, il bordo imperfetto e bruciacchiato che alla pizza sta a contorno, e che taluni blasfemamente osano persino scartare. Ecco, con buona pace dei sostenitori del cornicione mollicoso e dei fan di quello piatto, parrebbe che anticamente il cornicione fosse alto, morbido e internamente alveolato dallo sprigionarsi in cottura dei gas residui della lievitazione.
parrebbe che anticamente il cornicione fosse alto, morbido e internamente alveolato
La pizza, infine, in fondo è fatta prevalentemente di farina, e intorno a questo non serve la zingara per immaginare che tre secoli fa i contadini non impiegavano troppo tempo ed energie nel raffinarla, preoccupati come dovevano essere dagli esiti del raccolto, dalle fasi della vendemmia, dalle mucche da mungere e dai campi da arare. Insomma, di sbarcare il lunario, perché l’odierna doppiozero è stata introdotta anch’ella dagli americani, la cui agricoltura industrializzata ne produceva a tonnellate e non vedeva l’ora di poterne esportare in Europa. Farina serve, per fare la pizza; di quella che si ottiene macinando il grano. Di tipo uno. Non raffinata, ma grezza.
Olio, farina, pomodoro, mozzarella. Basilico e un pizzico di sale. Una bella pasta elastica e lievitata e un forno a legna alla giusta temperatura. In tre minuti avrete una pizza come quelle del tempo che fu. Come comanda Dio, si dice a Napoli.
A riproporla ci ha pensato Francesco Gallifuoco, figlio d’arte della pizzeria da Franco e suo gestore. Siamo ovviamente a Napoli, a due passi dalla Stazione Centrale. A pensarci bene non potrebbe esistere posto migliore per metter su una pizzeria. E lì proprio dove dovrebbe essere. Vicino alla ferrovia. Luogo di ristoro prima della partenza, luogo di pausa dopo l’arrivo. Pizze e treni devono avere qualcosa in comune, in effetti. Qualcosa che ha a che fare col ferro, col legno e col fuoco. O forse col tempo, il tempo lungo della cottura e quello lunghissimo dell’attesa; il tempo breve della cottura e quello brevissimo di una partenza, che è separazione almeno quanto l’arrivo è ricongiungimento.
Coniugando tradizione e modernità Francesco ha voluto riproporre taluni aspetti della pizzeria antica, per un verso inserendo nell’impasto una parte di farina di tipo uno e assegnando all’olio evo un posto d’onore sul banco degli ingredienti, per altro dando alle eccellenze del territorio circostante il posto di riguardo che meritano quando si tratta di selezionare gli altri ingredienti: Pomodori San Marzano Dop e Piennolo del Vesuvio, così come Mozzarella di bufala campana Dop e Fiordilatte e Provola di Agerola.
come si dice a Napoli: a tavola non s’invecchia
Siamo stati alla presentazione alla stampa del menù della
Pizzeria Franco
Corso Lucci 195, Napoli
ristorantepizzeriafranco.it