L’Istituto per la Regolazione degli Orologi: libro del 2015
È un mio difetto: sono generalmente analitica ai limiti della sopportabilità, sicuramente lo sono abbastanza per non cedere all’acquisto ispirato di un libro di cui ignoro tutto ma di cui colgo un misterioso fascino. Ponderare è per me un imperativo, ed investire i miei risparmi per un oggetto di cui ignoro l’autore, il contenuto, il contesto di provenienza è impensabile.
Eppure quel blu Klein mi ha attratta da subito. Afferro il libro e leggo:“L’Istituto per la Regolazione degli Orologi”. Probabilmente l’eccezione è stata possibile solo perché il titolo del suddetto libro lascia prevedere una cavillosità che può competere con la mia.
Così, acquisto -o meglio, ricevo inaspettatamente in regalo da mia mamma, per il compleanno- e leggo il libro di Tanpinar, autore turco del secolo passato, assaporandolo come non facevo da mesi. A fine anno, posso definirlo senza esitazioni il miglior libro che mi sia capitato sotto gli occhi nel 2015.
È la storia di Hayri Irdal, un tortuoso percorso di formazione che culmina con la sua esperienza all’interno dell’Istituto per la Regolazione degli Orologi. Il quale gli permette di approfondire la conoscenza con Halit il Regolatore, personaggio controverso, discutibile ma profondamente carismatico.
Hayri proviene da un mondo dove la passione per gli orologi è roba da artigiani, dove una pendola può diventare quasi divinità ed assumere il nomignolo de “Il Santo”, mondo che vive in botteghe buie e polverose come quella di Nuri Efendi, dove questi meccanismi servono a scandire tempi prettamente religiosi: le cinque preghiere quotidiane, il Ramadan. “Il modo più sicuro di arrivare a Dio”, come lo stesso protagonista lo definisce.
A spezzare questa innocente dedizione, irrompe il tempo secondo Halit il Regolatore: un tempo che è denaro, despota, un tempo che va rispettato, pena l’attribuzione di multe salatissime. È Halit che fonda l’Istituto che dà il titolo al romanzo.
E lo fa proprio nel momento di maggiore vulnerabilità di Hayri. Nel suo cervello, infatti, sono tanti i fantasmi che aleggiano, l’assurdità della vita assume una forma goffa fra i suoi pensieri sfociando nella percezione dell’assenza di senso. Intanto la vita procede, i figli crescono senza lasciare al padre la soddisfazione di aver assolto il suo compito di genitore, le mogli muoiono, il tempo avanza, scandito proprio da quegli orologi il cui ticchettio ormai è tiranno. È in questo continuo scavarsi di vuoti che Hayri decide di prendere parte all’iniziativa di Halit che, inizialmente, sembra poter ridare un senso alla sua vita.
–Automazione, eh? L’unica vera debolezza e allo stesso tempo l’unica vera forza del nostro secolo
L’Istituto cresce, si sviluppa, evolve fino quasi a vivere di vita propria. Il futile si fa bisogno, in questa istituzione che prima o poi, di certo, “avrebbe creato da sé la propria funzione”. In effetti, l’intuizione di Halit è geniale: il tempo è qualcosa di talmente insondabile e spaventoso che la sua regolazione risulta immediatamente cosa gradita ai più.
“Cos’altro facciamo in fondo, se non ricreare l’ambiente in cui viviamo? Non si sta comodi, seduti sul filo di quel rasoio che chiamiamo presente.” p. 355
Hayri entra nell’Istituto timido e pieno di dubbi, dopo aver esperito in prima persona quella “vita sulla soglia”, conosciuta nei caffè e nelle sedute spiritiche, fra intellettuali e psicoanalisti.
Era la palude che chiamano l’assurdo. Senza rendermene conto, mi ci ritrovai immerso fino al collo.
“Sentendola raccontare del caffè, pensavo che tutti questi uomini, che in gran parte conosco, vivono in una sorta di vuoto. Se preferisce, li potremmo chiamare “quelli che sono rimasti sulla soglia”. Si tratta dell’esistenza pigra, per metà seria e per metà ridicola, di persone incapaci di entrare in sintonia con i nostri tempi. Dubito che tutto questo possa avere una relazione con il passato.
“[…] In ogni caso, anche considerando inaccettabili le idee sul lavoro di Halit il Regolatore, pensavo che la sua diagnosi sulle persone che ho conosciuto al caffè fosse la migliore. In realtà, la vita che vi si conduceva era veramente una “vita sulla soglia”. Quelli che la vivevano, cioè quelli che non avevano nessuna intenzione di entrare, avevano sempre la valigia in mano. Non esisteva problema per il quale la fuga non fosse una soluzione! Da cosa scappavano, e per quale motivo? Non cercavano di resistere a quella tentazione? O forse erano veramente indifferenti a tutto, anche a loro stessi? No, qui tutto era oppio e narcosi.” p. 164-165
“Quello che fuori dal caffè sembrava serio, dentro, per colpa di una serie di piccole disavventure assai improbabili, si trasformava in farsa. Era la palude che chiamano l’assurdo. Senza rendermene conto, mi ci ritrovai immerso fino al collo. Ero sprofondato in un mondo senza senso, come se fossi finito nelle grinfie di un animale fittamente ricoperto di piume, e dotato di numerose braccia e ali, capace di sfinire una persona a forza di solletico, risatine e svenimenti. Avevo cominciato a vivere in un mondo incoerente dove tutto era concatenato in un modo sbalorditivo, in una specie di festino organizzato sopra le rovine provocate da una tempesta cominciata chissà dove. In che luogo aveva avuto origine? Quali mondi strani e pieni di contraddizioni aveva devastato, o quale flotta aveva spazzato via al punto che non era possibile identificare con precisione nessuna delle cose che aveva trascinato e ammassato davanti a noi? Tutto accadeva con una rapidità tale che sembrava uscire dal cilindro di un prestigiatore. Vivendolo, mi sembrava piacevole, ma ripensandoci più tardi mi apparve inquietante come un incubo.” p. 173
Fra oppio e narcosi, nella farsa continua in cui Hayri continua a penetrare, si era già da tempo fatto spazio il vuoto, la ripugnanza verso se stesso, l’umiliazione, il ripudio del mondo intero.
“Dentro mi sentivo un peso mai provato prima. Non era paura, nemmeno dolore. Era il rimorso che può provare solamente una persona che tradisce se stessa. Era una sensazione strana che confinava con il disgusto. In uno di quei giorni, mi ritrovai di fronte a uno specchio e vidi il mio fantasma. Tra i cappotti appesi vidi il mio volto, un volto così soddisfatto e meschino, così umiliante e volubile, così rinunciatario e privo di nerbo che per un attimo credetti che lo specchio mi avrebbe vomitato, che mi avrebbe sputato la faccia sulla punta delle scarpe. Invece no, non andò così. Alla seconda, terza occhiata mi abituai anche a quel fantasma. Tutto mi era indifferente.” p. 176
Arrivato a tanto, di cosa può aver bisogno il pover’uomo? Di una guida, di un obiettivo, di ritrovare -o creare- un senso. Halit il Regolatore fa la sua comparsa proprio per colmare le lacune di Hayri. Non si smentisce mai, plasma la realtà secondo il suo volere, la modella, ne ha padronanza completa e continua e non si lascia scoraggiare da nulla. Prestigiatore sempre in possesso di un asso nella manica, riesce ad averla sempre vinta. Forse è anacronistico, ma è esatto definirlo un leader. Se, ad esempio, il problema è una zia incapace di cantare ma appassionata di canto ed ostinata a rincorrere questa carriera, la soluzione sta nel capovolgere i criteri di giudizio. Halit consiglia infatti all’affranto Hayri:
“Il realismo dell’uomo nuovo è molto diverso. Ho per le mani una determinata merce, con le sue specifiche qualità, cosa posso farne? Ad esempio, il nostro errore più grave è stato quello di giudicare sua cognata partendo da un’idea astratta, in questo caso, la musica. Cerchi invece di guardare la faccenda dalla prospettiva di sua cognata. Come cambiano le cose. Se Newton si fosse concentrato sulla mela che gli è caduta in testa prendendo in considerazione solamente la sua natura di frutto, non sarebbe andato lontano, l’avrebbe buttata perché era marcia. Ma lui si è comportato diversamente. Si è chiesto cosa avrebbe potuto ricavare da quella mela. “Che vantaggio potrei ricavarne?” Faccia così anche lei!”
La sicurezza di Halit è contagiosa e presto se ne appropria anche il protagonista. I due collaborano alla costruzione di questo mostro paradossale in cui tutto è calcolato nei minuscoli particolari. Nell’Istituto c’è un posto di lavoro ben definito che spetta a coloro che faranno i complimenti alle donne a lavoro, al fine di incentivarle. Tuttavia, questi stessi impiegati saranno anche i primi ad essere licenziati, perché ogni tanto, per il nome dell’azienda, è bene far vedere al mondo che si tenta in buona fede di economizzare e tagliare le spese.
Quello che era il realismo di Hayri all’inizio, ovvero la disperata presa di coscienza della realtà, della sua assoluta mancanza di senso, si trasforma con Halit in qualcosa di nuovo:
“Essere realisti non significa vedere la realtà così com’è, ma piuttosto avere con essa una relazione più proficua.”
E se il realismo è qualcosa in divenire, se manca di un’adesione eterna alla concretezza ed alla tangibilità, il relativismo impera. Spiega infatti Halit che:
“L’errore esiste solo per coloro che commettono la sciocchezza di correggerlo. Non per noi. Dal momento in cui accettiamo la sua esistenza, lo abbiamo già superato. No, Hayri Bey, l’errore non esiste, non sarebbe possibile.” p. 407
In men che non si dica, Hayri entra nell’ingranaggio. Lo fa non senza una punta di scetticismo e spinto in parte dalla convenienza personale, ma procede ugualmente spedito verso la perdita della propria identità:
“Avevo talmente assorbito la disciplina di Halit il Regolare che adesso non potevo accettare a cuor leggero nessuna critica.” p. 361
Ben presto, infatti, si fa seconda voce del pensiero di Halit, inventando esistenze irreali, elaborando minuziosamente menzogne, suggerendo tattiche truffaldine e idee che Halit reputa puntualmente geniali.
“Ero diventato una menzogna senza limiti”
“- Se parlassero tutti con lo stesso tono, dolce e pacato, e se allo stesso tempo gli insegnassimo a essere estremamente cortesi, gentili e seri l’interesse aumenterà. Se parlassero degli orologi e dell’Istituto usando tutti le stesse parole, con un gergo da esperti, se dicessero solo lo stretto indispensabile e si muovessero come se fossero loro stessi degli orologi, se parlassero con una serietà insolita per la loro età e una volta detto quello che devono dire tacessero…
-Automazione, eh? L’unica vera debolezza e allo stesso tempo l’unica vera forza del nostro secolo. Il fondamento e la colonna vertebrale di un nuovo Medioevo organizzato, mentre ci prepariamo a entrare in un’età illuminata. Lei ha ragione, Hayri Bey. Lei è genio. Lei ha fatto una scoperta eccezionale. Persone come sveglie, che parlano quando gli viene imposto e tacciono quando hanno svolto il loro dovere, non è così? Uomini-disco… Fantastico!” p. 303
C’è senz’altro un che di distopico in tutto ciò, e se non ho esitato a definire Halit il Regolatore come un leader assoluto, non esito questa volta a definirlo genio del marketing, ricorrendo ad un altro azzardo filologico. Illusionista dal sorriso ammaliante, leader e burattinaio.
Personaggio umanissimo nel suo continuo tentativo di sottrarsi all’umanità per raggiungere la perfezione assoluta, è Halit il vero protagonista del romanzo. È la sua storia, quella che Hayri narra fra le pagine, parlando in prima persona. L’Istituto per la Regolazione degli Orologi è un omaggio a lui, atto di fiducia cieca in quel mondo popolato da fantomatici esperti, gadget, premi, dubbie pubblicazioni, ascese professionali e diffusione massima dell’Istituzione. Un grottesco circo delle assurdità che, procedendo nella lettura, si fanno credibili grazie all’astuzia di Halit, al quale è sufficiente credere ciecamente nell’innovazione delle sue superflue creazioni per renderle indispensabili. È facile cedere ad un gioco che appare così semplice:
“Che Halit il Regolatore mantenesse o meno la sua promessa, mi aveva comunque insegnato come guardare dal binocolo.” p. 270
Tuttavia, con l’andare del tempo, anche il mondo meraviglioso che Halit si ostina a dipingere, lentamente, si sgretola. Hayri percepisce di nuovo l’infondatezza del suo agire.
“Ero diventato una menzogna senza limiti di cui ogni giorno scoprivo un aspetto nuovo, proprio come un feuilleton.” p. 319
Ad intervalli più o meno regolari, emergono nel romanzo riflessioni su conoscenti, amici, parenti. Troviamo un Abdusselam Bey che al lettore occidentale ricorda il balzacchiano Père Goriot:
“Abdusselam Bey aveva preparato la propria solitudine con il suo affetto, la sua forse eccessiva attenzione per le persone, il suo amore per la famiglia. Senza dubbio, se non ci fosse stato questo affetto, quelli intorno a lui non sarebbero scappati in quel modo, non avrebbe sofferto tanto la solitudine e non si sarebbe ridotto in quello stato.” p. 103
Leggiamo di come il disgraziato abbia elaborato il lutto della prima moglie:
“Alla morte di Emine, mi ritrovai in un vuoto assoluto, come se si fosse spezzato il ramo al quale mi tenevo aggrappato. Quello che avevo perduto era talmente grande che al principio non riuscivo nemmeno a rendermene conto. Non ero nemmeno consapevole della vita che stavo vivendo. Mi limitavo a starmene lì con qualcosa di profondamente oscuro e opprimente nel petto. Più tardi il mio abbattimento si mescolò a una sorta di senso di liberazione. Mi ero liberato di un peso. Ormai Emine non sarebbe più potuta morire, e nemmeno ammalarsi. Sarebbe rimasta lì com’era, in un angolo della mia anima. Nella vita mi sarebbero ancora potute capitare molte cose terribili, avrebbe potuto succedermi di tutto, ma quella peggiore di tutte – la possibilità di perderla e l’angoscia che ne sarebbe derivata – non sarebbe più esistita. Non avrei più scrutato ossessivamente la sua malattia, non avrei più vissuto con il rimorso. La paura che mi portavo dentro non sarebbe più cresciuta, non mi avrebbe più assediato.La mia casa era crollata ed ero rimasto solo con due bambini, avevo perso il gusto per il lavoro e, quel che era peggio, non credevo più in niente. Ma non avevo più paura. La cosa peggiore che mi poteva capitare era capitata. Ero libero.”p. 175
Sondiamo la profondità dei suoi pensieri di padre:
“Non ce l’avevo con lui perché non era uguale a me, perché mi rifiutava. Sapevo che la sua unica possibilità di salvezza era di non assomigliarmi, dovevo accettarlo. Ne ero addirittura contento. Mi chiedevo però dove trovasse la forza. Come era riuscito, l’ultimo discendente maschio della dinastia di Ahmet Efendi l’Approssimativo, ad arrivare a quel punto? La cosa più sorprendente era che tra di noi non ci fossero né odio né rabbia. E invece una situazione simile non avrebbe dovuto essere così indolore. Voleva dire che mio figlio non si era limitato a rifiutare i vantaggi che il mio benessere materiale gli avrebbe potuto garantire, ma che aveva pure condotto una battaglia ben più dura. E aveva vinto da solo. […] Se Ahmet fosse stato un po’ più accessibile, gli avrei detto tutto e gli avrei chiesto scusa.”p. 432
“Mentre a quanto pare lui deve dimenticarmi per diventare se stesso, io un po’ mi sono ritrovato solo grazie a lui. Ma non lo capirà. Pensa che il mio destino sia segnato, e ha ragione. Io invece tremo pensando al suo. […] Ci sarebbe sempre stato un abisso tra di noi. Di tanto in tanto ci sarebbe capitato di tenderci la mano, poi però ognuno sarebbe tornato nel suo mondo, io deluso e lui pieno di speranza.” p. 433
L’Istituto per la Regolazione degli Orologi è critica alla burocrazia astrusa e alla modernizzazione, satira dei cialtroni e dei perdigiorno ma anche elogio della saggezza di questi ultimi; è la storia di Istanbul dall’inizio del Novecento agli anni Cinquanta, di un padre e marito che tentenna fra mille interrogativi e sa darsi di tanto in tanto risposte commoventi, è il racconto di una passione innata quasi perversa, la ricerca di un senso che nel tempo si perde e si ritrova, la vita di un uomo qualunque e del suo oscillare, quasi come quell’orologio a pendolo che egli stesso amava definire Il Santo, fra momenti di noia e lampi di euforia. Ne L’Istituto per la Regolazione degli Orologi, edito da Einaudi, si nasconde, in fondo, la storia di tutti noi, come accade in ogni capolavoro che si rispetti.