Tornare a casa
Tornare a casa è molto più di quello che possa sembrare geograficamente. Tornare a casa implica un ritorno globale: tornare ad un lessico familiare, al profumo dell’ammorbidente di mamma, alla bolognese, al ragù, al dialetto, allo stato di figlia.
Se partire è tirare un enorme elastico e dilatare tempo, spazio e inventare nuovi modi di comunicare, tornare significa riportare l’elastico in posizione di riposo.
Riposo è forse la parola giusta, riposo dalle prime impressioni, dai salti mortali, dalle scadenze, dai saggi da consegnare, dalla paura di non essere abbastanza. Riposo dalle spiegazioni, dai suoni a volte ostili, dai sapori che sono diventati tuoi ma che non reggono più alcun confronto.
D’un tratto la città mi sembra più stretta, la moda più stupida, l’omologazione una pericolosa piaga che infetta già mezza città.
L’elastico che è tornato a riposo è riuscito ad allungarsi senza sfilacciarsi e a creare radici chilometriche tra un’amica e l’altra. Si piega, crea spazi e ne accorcia altri, ma a volte cede e accetta la fine delle cose. Amicizie che non si sono lasciate lavorare, che probabilmente non erano pronte a cambiare forma e così l’elastico si è rotto, smettendo di unire due capi troppo distanti tra loro.
Ho mille elastici colorati che mi partono dal centro del petto e si diramano nelle quattro direzioni, ignari di chilometri, fusi orari, lingue, connessioni e governi. Ma oggi non è tempo di pensare, c’è solo tempo di sentire.
Sono piena di cose da sentire. Il profumo del caffè sul fuoco, la vita delle castagne in pentola, i sospiri per un goal mancato, la consistenza del babbà. Prendono vita e si moltiplicano, lanciano semi che fioriranno quando sarò già sull’aereo di ritorno.
Ma non ho tempo per pensarci. Questo è il tempo di sentire.
Lasciatemi qui, senza pensare, senza parlare. Voglio solo guardare senza capire, senza prevedere le mancanze di domani.