Un albero di Natale e una cassapanca
Il mio primo Natale in India è stato due anni fa. E la mia priorità era la presenza di un albero di Natale dentro casa.
“Devi comprare un albero di Natale. E devi farlo prima del mio arrivo” questo era un po’ il mantra di quei giorni. Perché passi la totale assenza di tortellini, passi l’introvabilità di panettone o mozzarella ma l’albero no. Su quello non ero disposta a transigere.
E così la mia metà migliore per amore, o forse per non sentire più quella lagna (si, forse più per questo anche se romanticamente preferisco pensare alla storiella dell’amore), se ne è andato in giro per mezza Delhi alla ricerca di un alberello.
La forza della disperazione gli ha consentito di trovarne uno che, oltre a essere alto forse settanta centimetri, era anche brutto quanto un colpo. Di plastica verde acido, sembrava un’installazione di scovolini per lavare i piatti.
Però non importava. Così, come al mio solito, inizio a preparare una valigia che aveva un sapore dei primi anni del ‘900, quando gli immigrati italiani infilavano nelle loro valigie di cartone qualunque cosa fosse indispensabile per il viaggio. Nel mio caso, mortadelline sotto vuoto, parmigiano, panettone e circa settanta palline di vetro per addobbare l’albero.
Un’intelligenza sopraffina la mia. Palline di vetro. Da imbarcare per un volo intercontinentale. Che poi devono sbarcare idealmente sane in India.
Una valigia non poteva bastare, dunque ne ho fatte due. Una solo di addobbi natalizi.
Al mio arrivo era molto difficile trovarmi poiché ero sepolta da una quantità fuori controllo di borsoni e borsettine. Ma forse, proprio per questo, ho visto l’albero del mio cuore venirmi incontro con il suo bel sorriso e i suoi capelli un po’ spettinati. Quell’alberello comunque ce l’avevo nel cuore
Ci abbracciamo e ci guardiamo e i suoi occhi mi dicono “Quante ne hai comprate?”e i miei rispondono “Tutte quelle che servono”. Così ce ne torniamo a casa.
A fare l’albero.
E’ stato un bellissimo Natale quello. Uno di quelli che auguri a tutti, anche perché poi gli è seguito un bellissimo capodanno e un anno un po’ complicato ma altrettanto meraviglioso. Talmente meraviglioso che alla fine ho ritenuto più saggio smetterla con il contrabbando di palline natalizie e ho deciso di andare a vivere proprio lì, nella terra degli alberelli di Natale più brutti di sempre.
Poi, come sempre accade, ci si mette in mezzo l’imprevisto.
Sette dicembre del corrente anno. Riporto fedelmente la conversazione con Chander, il famigerato marito di Arti.
“Chander, dopo il trasloco dove avete messo l’albero di Natale?”
Silenzio.
“Madame, l’ho messo a posto io. E’ nella cassapanca”
Come può essere entrato nella cassapanca? Era visibilmente più lungo. Decido di non chiedere nulla.
“Potresti portarmelo per favore?”
“Certo”
E torna con una busta da cui tira fuori due tronconi di quello che in un glorioso passato è stato il mio alberello.
“Ma Chander! Ma lo hai segato a metà? Quell’albero non aveva mica due pezzi!”
“No Madame. Non l’ho segato a metà”
Rispose, nascondendo dentro la busta un trinciapollo.
Nonostante mi pianga il cuore per la misera fine del mio albero, decido di soprassedere. In fondo le cose si rompono. O vengono segate a metà.
Risolutamente, decido di uscire per comprarne uno nuovo.
Vorrei chiudere così questo post, con una qualche riflessione romantica e positiva.
E invece no.
Perché, per fare questo acquisto sono andata in tuk tuk, la tipica apetta indiana aperta dai lati del passeggero che funziona come taxi, ma il conducente si è perso. Dunque dopo un lungo girovagare ci siamo ritrovati in mezzo ad un corteo funebre musulmano. Il che non avrebbe presentato problemi di sorta se non fosse che noi avevamo imboccato la strada che porta al cimitero la quale, tuttavia, è tipo il raccordo a Roma. Dunque tra autobus, mucche, miriadi di tuk tuk, si aggirava questo corteo di gente a piedi che si è diligentemente fermato al semaforo in attesa che scattasse il verde. Al semaforo, io. Nel mio tuk tuk sgangherato. Accanto a me, in pole position, il morto che si trovava su una bara aperta, col viso scoperto. Ci sono dei momenti nella vita in cui è difficile dire cosa sia giusto fare. Stare fermi a un semaforo con un morto accanto da una parte e uno che vuole venderti degli strofinacci da cucina dall’altra è uno di quelli.
“E’ stato un buon uomo” mi dice un signore del corteo.
“Ne sono certa. Mi spiace per la vostra perdita” rispondo
“Madame, vuoi un canovaccio per la polvere?” mi dice l’altro
Meno male che è scattato il semaforo.
Alla fine, l’albero lo trovo. E’ brutto proprio come il precedente, solo un po’ più alto.
Sono contenta e puzzolente di smog
Sono contenta e puzzolente di smog.
Al mio ritorno un’amara sorpresa. Nella fretta di uscire, avevo lasciato le polpette della cena sul piano cottura. Adeguatamente coperte.
Appena messo piede in casa, le medesime polpette stavano facendo una festicciola davanti alla porta della cucina, avendo come ospiti d’onore i miei gatti, che se le stavano adeguatamente smozzicando.
Esiste una morale?
Forse no. O forse la morale è che se hai due gatti ingrati, devi sempre mettere la cena al sicuro.
In ogni caso io ho un augurio da fare a tutti voi. Quello di passare un Natale come il mio. Con un piccolo alberello e con accanto una persona meravigliosa che rende tutto più luminoso.