Non più briciole ma… Fame
Modi diversi di dire la Fame: leggere contemporaneamente un Nobel ed una nuova uscita si è rivelato maniera congeniale di analizzare entrambi.
Parlo di “Non più briciole” di Alessandra Arachi, edito da Longanesi, e “Fame” di Knut Hamsun, Nobel per la letteratura nel 1920, edito da Adelphi.
Se la giornalista italiana aveva già affrontato il tema dell’anoressia nel precedente romanzo “Briciole”, Hamsun non lo ha mai fatto esplicitamente. Eppure parlando di fame illustra il disturbo alimentare molto meglio di quanto lo facciano oggigiorno tanti manuali o antologie che tendenzialmente sminuiscono il problema, lo schematizzano secondo facili approssimazioni, ricorrono a colpevolizzazioni non generalizzabili che la Arachi, nel suo libro, non fa che additare ed accusare.
“Non più briciole”, infatti, si distingue da “Briciole” proprio per il focus insistente sulla figura della madre di Loredana, ragazza affetta da anoressia: sarà forse il passare degli anni, ma quella che racconta la Arachi è adesso un’anoressia vissuta in un clima tutto familiare in cui lei non prende più la parte della malata ma dell’osservatrice, una madre che quell’anoressia non la sa immaginare fino in fondo e che si documenta spiando di nascosto i libri segreti della figlia. Incappa quindi in Hilde Bruch e nel suo libro “La gabbia d’oro. L’enigma dell’anoressia mentale”. Incappa in medici che parlano di madri coccodrilli e madri draghi e madri chi più ne ha più ne metta: categorie inventate da chi il dramma del disturbo alimentare non lo ha vissuto mai, categorie che fanno male alla donna che non sa come muoversi per aiutare la figlia, che esita fra immobilismo desolato e imbarazzata ricerca di tracce. Forse in fondo tutti i genitori e tutti i figli si esplorano così: in silenzio. E scoprendosi clandestinamente possono avere anche brutte sorprese.
Questo è il libro della Arachi: in primis, una pietra scagliata contro tutta la bibliografia riguardante la tematica del disturbo alimentare, in seguito, una narrazione sentita -perché vissuta sulla pelle delll’autrice- del dramma, narrato con frasi brevi ed incisive che sì, a tratti suonano scontate, ma che sono unica forma espressiva per raccontare la scarnificazione del corpo, quella che l’abbondanza di parole non saprebbe mai esemplificare.
La figlia raccontata dalla madre parla poco, quasi per niente. Parla la madre con il fidanzato della ragazzina, parlano e lei scopre segreti che non la stupiscono più, tanto ormai la figlia è figura evanescente, corpo privo di sesso e consistenza. Scopre segreti che non la sorprendono perché uccidono la sua capacità di sorprendersi, di sentire.
Ma se quella figlia parlasse, se il ruolo importante di essere voce narrante fosse lasciato a lei, cosa direbbe? Torno alla lettura di “Fame” e trovo risposta: l’inconsapevole eppure ineccepibile risposta di quel genio norvegese che non aveva idea che un giorno le sue duecento pagine si sarebbero potute leggere in chiave diversa da come lui le aveva concepite. Non si tratta ovviamente di una lettura filologica, ma senz’altro è una rilettura interessante.
Di “Fame” ho già parlato, parlando di rabbia, di vulnerabilità, di messa in dubbio della realtà dipendente dalla mancanza di ATP in circolo.
E infatti Hamsun continua, a pagina 26: “…Debolezza. Cominciai a infuriarmi contro me stesso per quella sensazione ridicola da cui mi ero lasciato consapevolmente sopraffare”. Poi si definisce verme che si intorpidisce nel proprio sfacelo.
Così descrive il vuoto odiato e bramato che lo abita: “In quello sforzo sterile i miei pensieri si accavallarono di nuovo disordinatamente e sentivo che il cervello non mi dava ùip retta e la testa si vuotava” […] “Quel vuoto spalancato me lo sentivo in tutto il corpo, che era come scavato dalla testa ai piedi”: siamo a pagina 33.
“Ero intossicato dalla fame, la fame mi aveva ubriacato […] Non provavo più alcun dolore, la fame lo aveva smorzato. Al contrario, mi sentivo piacevolmente vuoto e nessuna cosa all’interno mi toccava: ero lieto che nessun occhio mi potesse vedere”
Quale è il vuoto di cui parla il protagonista, se non quello tanto agognato dal personaggio della Arachi?
Lo scrittore affamato confessa anche: “Giacevo a occhi aperti in uno stato di dolcezza estatica… Mi sentivo meravigliosamente lontano da me stesso”, e poi “svuotato fisicamente e moralmente”.
Anche qui, niente di più e niente di meno di quanto riportato dalla Arachi nel personaggio di Loredana -di cui però non sveliamo nulla-: il disgraziato di Hamsun erra per le strade commettendo azioni disonoranti, truffe, dicendo bugie. Riflette “incominciavo ad avere macchie dentro di me e muffe”.
La realtà si fa cosa distante e quindi non va più presa sul serio, tutto si fa ossessione, a tratti estasi divina a tratti allucinazione diabolica. Il vero non c’è, il protagonista gioca con le parole scambiando per gioco significanti e significati, sapendo di ingannare e di ingannarsi e provando un gusto immenso, si perde in giochi che il lettore ammira ammutolito, immaginando uno scheletro impazzito che è la stessa immagine con cui è descritta la Loredana della Arachi mentre scivola fiera ed incosciente nella sua gabbia dorata.
“Avevo ribrezzo di me stesso […] Odiavo il mio corpo afflosciato, rabbrividivo all’idea di doverlo portare, di doverlo sentire.”
Il momento della vergogna e del ribrezzo c’è in ogni silenzio di Loredana, anche: una delle tante altre analogie.
Forse Hamsun ha già detto tutto. Forse scrivere di anoressia è un bisogno per chi ne scrive ma non ha una sua utilità perché chi legge possa davvero comprendere. E il paradosso è che forse il libro della Arachi dice proprio questo. E Hamsun, calzando inconsapevolmente benissimo anche le vesti dell’io anoressico, non fa che confermarlo.