Avevo vent’anni e facevo l’operaio
A quel tempo io ero un ragazzo che giocava a ramino e fischiava alle donne. No, questo non ero io, ma Buffalo Bill. Ricominciamo.
Quando avevo vent’anni o giù di lì e avevo una barba meno folta e una capigliatura, al contrario, più rigogliosa, decisi di mettere da parte libri e quaderni e dedicarmi all’inveterata arte del gonfiare il portafoglio. Così passai un paio di giorni nelle agenzie interinali della città e al terzo giorno, essendo la crisi ancor lontana, la mia età nel fiore, la barba fresca e il capello vispo, fui chiamato per un colloquio in un’azienda della provincia citeriore, che è un modo arguto e classicheggiante per dire: al di qua del fiume Po. A quei tempi, che non sono passati manco tanti anni ma pare un’eternità, i colloqui erano brevi, l’intervistatore il padrone stesso, le mani sporche di morchia, la barba di due giorni, la cravatta appesa da qualche parte. “Hai voglia di fare l’operaio ragazzo mio?” Lo sguardo paterno, le frasi paternalistiche. Suvvia diciamocelo: non c’è tempo da perdere. La concorrenza, le scadenze da rispettare, i cinesi alle porte. “Ci vediamo lunedì, ragazzo mio”.
Tutto sommato devo dire che non si stava male in quell’azienda. La segretaria, ad esempio, aveva un signor mandolino che mostrava senza parsimonia né sciovinismo classista a chiunque si avvicinasse al gabbiotto dove spediva fax, riceveva telefonate e scuoteva le mattonelle con colpi di tacco vertiginosi. Dovrei forse dire qualcosa anche sui capi, i locali, i colleghi e quant’altro, ma non lo farò perché non mi va, quindi passiamo alle mie mansioni senza troppi discorsi. Il mio lavoro consisteva nel controllare un campione di manufatti di metallo per ogni lotto prodotto. Avevo a disposizione un calibro e uno strano oggetto che pareva un dildo e invece serviva per controllare le filettature. Quattro ore al mattino, quattro dopo la pausa pranzo. Il che potrà sembrare ai più una tortura degna del famigerato Mengele, ma non certo per il sottoscritto, soprattutto in quegli anni ribelli di barba incerta e capelli vividi, di sigarette truccate dove i semi scoppiettavano come mortaletti e di sbicchierate degne di Carlo, Alessandro e Magni tutti. Il trucco per sopravvivere, per chi ancora ambisse ad una catena di montaggio, è semplice e qui ve lo spiego: calcolate quanta parte del vostro cervello
Lo sguardo paterno, le frasi paternalistiche. Suvvia diciamocelo: non c’è tempo da perdere. La concorrenza, le scadenze da rispettare, i cinesi alle porte. “Ci vediamo lunedì, ragazzo mio”
E insomma tutto andava pressoché bene fino a quando qualcuno decise di farmi lavorare il sabato mattina. Per un ragazzo appena uscito dalle superiori, un fante dalla barba debuttante e il capello vergine che, smanioso, aveva atteso la fine dell’obbligo scolastico per trasformare il weekend nella battaglia di Verdun, lavorare il sabato mattina era a dir poco traumatico. Ma non mi diedi per vinto: se mi volevano, sarebbe stato alle mie condizioni. Tuttavia per il primo sabato lavorativo scelsi la carta della tranquillità. Il secondo, invece, no. Ribadisco il concetto nel caso vi fosse sfuggito: NO.
Con un coltello piantato pochi centimetri al di sopra della tempia sinistra e un paio di fuochi fatui in bocca mi svegliai dal letto, scaricai
qualcosa di non ben definito nel water, masticai una merendina che scatenò la rivolta della barbarica tribù dei succhi gastrici, infine scesi in strada e mi aggrappai al volante. Parassitavo le scie delle altre auto, stringevo i denti, modulavo il respiro, riscoprivo le radici cristiane dell’Europa e rispolveravo il catechismo, ma niente poteva alleviare le mie pene. Il tuo bel sederino, almeno quello. Una parvenza di vitalità, solo questo ti chiedo. Regalami una trasparenza come solo tu sai fare, fammi scorrere le linee del tuo intimo. I tacchi, un paio di tacchi e tutto andrà meglio. Il sabato gli uffici sono chiusi, tamburo. Gesù, aiutami tu. Farò il bravo, davvero. Lo so che mi vuoi bene, dai.
Alle nove e mezzo le cose parevano volgere al meglio. Sedate le rivolte intestinali, allentata la morsa occipitale, regolata la sudorazione. Sei un grande. Lo sapevo, non avrei mai dubitato. Si, certo, un momento difficile, ma poi eccomi qua. Guarda, sorrido pure. “Ciao Beppe, bene, si bene dai, tu?” Sono un grande. Che fisico ragazzi. Stasera bis. E’ deciso.
Alle undici dalle parti del piloro un tale iniziò a predicare con veemenza contro i costumi smodati del sottoscritto. Decisi di non considerarlo. Si fotta. Che vuoi che faccia? Ma il menagramo fece proseliti. All’inizio fu lo stomaco. Poi l’intestino. Quindi la calotta cranica. Il collo. Le mani. La vista. Alle undici è mezzo chiunque e qualunque cosa fosse all’interno della mia epidermide si faceva bellamente i cazzi suoi.
In qualche modo superai la più grande rivoluzione interna di cui avevo memoria. All’una uscii da quella fabbrica e mi misi a dormire in macchina. Avrebbero potuto appendermi un cartello al collo con la scritta “La Polonia nel 1945”. Ma ce l’avevo fatta.
Il finale di questa storia è moralistico: lavorare insegna a campare. Soprattutto quando si è dei giovanotti con la barba lanuginosa e i capelli opulenti. Quel sabato pensai trentasette volte di mollare tutto e andare a casa. Sto male. Un po’ d’influenza, me l’ha attaccata la mamma. Anzi, no, forse è quello che ho mangiato ieri. Ha aperto un ristorante cinese in centro, ma non ve lo consiglio. Ci vediamo lunedì, ciao ciao. Ma non lo feci. Lottai fino alla fine ed ebbi ragione di me stesso. Non vinsi nulla, e se vogliamo ancora adesso il mio palmarés è alquanto scarno. Ma imparai
a riconoscermi una buona dose di carattere.
In definitiva: lavorate o fate lavorare la prole in giovine età, quando la barba è ispida e i capelli ancor sprezzanti. Non fosse altro per il di dietro della segretaria.