Antropologia del tatuaggio
È estate, fa caldo. Presi tra Caronte e l’anticiclone africano l’unica via d’uscita sembra essere correre al mare.
Passeggiare con le chiappe al vento e l’acqua al polpaccio non rappresenta solo l’unico modo per evitare la trasformazione allo stato gassoso, ma anche una full immersion nello scostume dell’umanità.
Ogni anno, sulle spiagge, si ripete un rito che ci porta a mostrarci in mutande o poco più, o poco meno ed ogni anno c’è qualcosa che cresce esponenzialmente, non parliamo della cellulite, né dei petti depilati, neanche dei triangoli imbottiti, ma dei centimetri di pelle intrisi di inchiostro.
Il tatuaggio, retaggio ancestrale di un passato tribale, fa prepotente mostra di sé tra gli appartenenti alla tribù che si dà appuntamento al baretto della spiaggia.
Da testimonianza di un passato nelle patrie galere a marchio della trasgressione, a segno indelebile sulla pelle di un segno indelebile dell’anima, a ragionato affresco, a ghirigoro alla cazzo di cane, in spiaggia non sei nessuno se non hai un tatuaggio ed è inutile spacciare i nei per un avveniristico tattoo ispirato all’unisci i puntini della Settimana Enigmistica.
La spiaggia si trasforma in un museo ambulante, con tele umane pronte ad illuminarsi sotto i raggi del sole, senza neanche inserire la monetina.
C’è l’appassionato dell’est, quello che ha avambraccio, braccio, spalla e petto istoriati come la Colonna Traiana in salsa orientale. Sul corpo si rincorrono carpe che diventano draghi, draghi che diventano geishe, geishe che diventano involtini primavera o pezzi di sushi, a seconda dei gusti, in un mix sino giapponese da far ribaltare millenni di storia.
C’è quello che invece preferisce la storia di casa nostra, col gladiatore che spunta fuori dal Colosseo e quello che ha la gamba depilata ad arte, ma lasciando il pelo solo sul viril petto romano.
C’è il padre di famiglia con problemi di memoria con una miriade di nomi e date scritte addosso, un modo come un altro per evitare figuracce, ricordarsi il nome della propria progenie, compleanni, anniversari e ricorrenze famigliari.
Poi ci sono i fini conoscitori della cultura mediorientale e dei resort di Sharm el Sheik, con scritte in arabo tatuate dall’animatore pugliese, a tempo perso insegnante di latino-americano, a cui nessuno ha avuto mai il coraggio di dirgli che lì, non c’è scritto “felicità”, ma “La colazione si serve dalle 7,00 alle 10,30”.
Le donne non sono da meno, sono tutte un tourbillon di farfalle che si insinuano nelle mutande per rispuntare dal reggiseno e non è dato sapere che percorso facciano, infiorate più di un paese nel mese mariano, con i polpacci avviluppati in tralci di edera, vite o rose con le spine a nascondere capillari fragili e vene varicose.
Con gechi mangiazanzare arrampicati sulle pance per risparmiare sugli zampironi e fiori di loto attira api.
Poi ci sono le frasi chilometriche, scritte in corsivo in posti nascosti, ma non troppo, in grado di stuzzicare la fantasia di chi guarda.
E a chi tatuaggi non ha, non resta che sognare il coraggio o l’occasione per imprimere sulla pelle qualcosa di cui non si pentirà mai, ad esempio una taglia in meno trompe l’oeil, un chiaro scuro ad ombreggiare perennemente i lati del corpo, in barba ai chili di troppo, ai cuscinetti, alla cellulite e al tempo che passa.
Una taglia in meno sarebbe per sempre, resisterebbe anche all’inevitabile cedimento cutaneo, alla pelle, che non perdonerà l’essersi tatuati a vent’anni una rondine che, ormai ottuagenari, somiglierà ad un pollo.