Smettere di fumare, terapia antifumo
Smettere di fumare, bella cosa, bel concetto, bella promessa fatta e rifatta ogni notte di Capodanno. Una terapia antifumo difficile da seguire quella dell’auto convincimento. A ripensarci, non ho iniziato prestissimo a fumare, in relazione alla mia generazione, s’intende. Se non ricordo male durante il primo anno d’Università iniziai a comprare il primo pacchetto, ricordo ancora la marca, Philip Morris Blu, posso scriverlo, visto che sono ormai fuori produzione. Al liceo guardavo i miei compagni fumare quasi inorridito, ma non devo nascondere che c’era una certa voglia di emulazione, se non altro per essere un tantino ribelle in famiglia. Mi facevano il lavaggio del cervello sul vizio del fumare. In fondo ne ero incuriosito e sarebbe stata una cosa per sfuggire al loro controllo, insomma, una figata. Per fortuna lasciai andare, impegnato com’ero con lo sport, le motociclette e le ragazzine. Arrivare a scuola su quella che era la più potente 125 in circolazione dell’epoca valeva almeno l’emozione di 100 sigarette al giorno. Con la maturità e la patente le cose cambiarono. Ero uno dei pochi a possedere l’auto personale, a godere di una certa libertà d’azione, insomma, mi comportavo come se avessi dieci anni in più. Il colpo di grazia lo ebbi varcando il portone della mia facoltà. Tra fuori corso e cialtroni vari, lì davvero ero piombato nel mondo degli adulti, almeno anagraficamente parlando. E beh, nella mia testa bacata, la sigaretta ci voleva proprio.
Mi ritrovai immerso in una nuvola grigia, densa, polverosa, puzzolente, non riuscivo a vedere nulla. Rimasi immobilizzato sul sedile, con lo sguardo fisso mentre gli occhi iniziavano a lacrimare.
Mille volte ho tentato, mille volte ho fallito. Ma la ragione può arrivare all’improvviso. Qualche tempo fa mi svegliai davvero uno schifo. Reduce da una serata alcolica, ero andato a letto tardi consumando almeno un paio di pacchetti. Non riuscivo a carburare ma, come al solito, iniziai a scandire i ritmi lavorativi, intensi ma noiosi, con una sigaretta dopo l’altra. Quella mattina, ad ogni boccata sentivo di intossicarmi, e nonostante ne fossi pienamente consapevole la confezione a fianco a me continuava a svuotarsi. Sentivo come un fluido verdastro entrarmi nelle vene. Eppure continuavo, strano ma vero. Ero in piena crisi auto distruttiva. Mi lasciò perplesso, pensieroso. Ci ho ripensato spesso a quella sensazione. Decisi di parlarne con il mio medico. Mi aveva già raccomandato diverse volte di smettere, ed ora ero lì, davanti alla sua enorme scrivania di legno scuro, con la coda tra le gambe a chiedergli aiuto. Mi guarda, si sistema comodamente in poltrona e mi fa, a bruciapelo: Sei convinto? Abbastanza, rispondo. Ok, non è il momento, riparliamone tra qualche tempo. Come sarebbe non è il momento, e perchè? gli faccio. Perché hai risposto abbastanza, troppo poco, non sei pronto. Insomma, un cazzotto sul naso avrebbe avuto un effetto meno nefasto. Ho recuperato per fortuna, raccontandogli la storia del liquido verdastro. Si sarà mosso a pietà e mi ha spiegato la terapia da seguire, finalmente. Risultato? Mi ritrovo a prendere delle compresse che nell’ordine mi hanno portato: nausea, sonnolenza, crampi, mal di testa, e non so cos’altro. Per fortuna non tutto contemporaneamente. Ah, dimenticavo, i sogni. Quelli sono fantastici. Situazioni surreali che neppure se ingoiassi un peyote ogni sera. Non sono incubi, ma come dire, qualcosa di alterato. L’ultimo somigliava ad un’opera dal vivo di Escher. Un tantino fastidioso ma ne vale la pena. Fatemi gli auguri e che Dio me la mandi buona.