La poesia della merda
Noi che cerchiamo e scorgiamo poesia in ogni cielo, azzurro o nuvoloso, nella luce e nel buio, nel riflesso del sole sulla pelle o nel disegno che la schiuma forma sul cappuccino del mattino.
Noi che la Vita non è poesia ma la poesia aiuta a vivere meglio (e pure noi che copiamo sfrontatamente Marzullo).
Noi che la lirica dei massimi sistemi. E pure di quelli minimi.
Noi che cuore emozioni amore. Ma anche una canzone, un tramonto, una pietanza.
Noi che il senso della vita, i destini del mondo, lo spirito, la materia, il tempo infinito, quello finito che finisce subito.
Noi che quando studiavamo Parini in fondo il risveglio del giovin signore un po’ lo invidiavamo.
Noi che siamo permeati di sensibilità e dotati di anime vere e profonde. O almeno così crediamo.
Noi che predichiamo di empatia, carità, assistenza a chi soffre.
Noi che la vecchiaia è vita reale e ci commuoviamo ripensando ai nostri nonni.
Noi che nei paraggi della mezza età, presi e compresi tra Foscolo e la Merini, tra Goethe e la Szymborska, un giorno abbiamo scoperto l’immensa poesia che può esserci nella merda. La parte prima, però, dello specifico tema, il lato della medaglia sorridente. Il pannolino di nostro figlio. Ci abbiamo riso, raccontando agli amici di come un culetto così delicato riesca a produrre un bisognino così insospettabilmente puzzolente, eppure noi l’abbiamo affrontata impavidi. Di più: sorridenti. Il sorriso del cuore, di una nuova vita che sgorga e che in qualche modo segna il culmine della nostra.
Intanto cresciamo. E prima o poi ci imbattiamo in altra merda. Stavolta con meno sorrisi.
Noi che la poesia del crepuscolo suona bene, letta sui libri o da un film delicato e commovente; toccare piaghe da decubito molto meno.
Noi che le nostre mani sono avvezze ai fiori o ai prati, alla pelle liscia e profumata del nostro partner; oppure ad una penna o a una tastiera, per scrivere meditazioni profonde. Poesia, appunto. Ma quando quel crepuscolo smette di essere parola su un foglio e ci sfiora da vicino, verso qualcuno che amiamo e accudiamo, allora siamo impacciati perfino a indossare un guanto monouso in lattice.
Noi che la merda al massimo sappiamo raccontarla in senso morale o metaforico. Ma raccoglierla e pulirla da un sedere raggrinzito ci fa senso
Noi che la merda al massimo sappiamo raccontarla in senso morale o metaforico. Ma raccoglierla e pulirla da un sedere raggrinzito ci fa senso. Vorremmo tirarci indietro, in quel momento, quando dalla lirica nobile delle parole dobbiamo passare al molto meno nobile disinfettante per cateteri, allora saremmo disposti a pagare qualunque cifra per lasciare ad altri la maleodorante incombenza.
E invece no. È difficile toccare davvero l’essenza stessa della vita se non si tocca con mano la tragica eppur scontata parabola del suo declino. È vita anche questa, forse soprattutto questa. Sporcarsi le mani, in tutti i sensi. Farlo senza lamentarsi, se si può anche con un sorriso, perché dall’altro lato un sorriso conta quanto l’aiuto materiale ricevuto. La poesia, in questo caso esistenzialmente tragica, è nel sapere che non servirà. Che non cambierà il finale di una vecchia storia, sempre la stessa, che si ripete da quando esiste l’uomo. Il bambino crescerà. L’anziano va incontro alla fine, in un tempo più o meno breve. Ma non per questo alleviarne le sofferenze è inutile.
È difficile toccare davvero l’essenza stessa della vita se non si tocca con mano la tragica eppur scontata parabola del suo declino
Nella merda forse non c’è molta poesia, ammettiamolo pure. Però a volte ce n’è tanta nelle storie che quella merda racconta, negli intrecci di vite, di amore, di dignità, di pura umanità che una esistenza al crepuscolo si porta dietro.
In ospedale un signore molto anziano e malconcio riceve visite, saltuarie e brevi, solo da una signora, anche lei sofferente ma ancora autonoma. I due non sembrano in grande sintonia, lui le rivolge sguardi a tratti carichi di ira, lei ricambia bofonchiando a bassa voce parole che non devono essere molto affettuose. Lui ha novantadue anni, lei ottantanove. La signora ha spalle ricurve per gli anni e gli acciacchi, ma gli occhi fieri e lo sguardo che rimanda ad una antica nobiltà d’animo. La sento recitare versi parlando tra sé e scopro essere stata una professoressa di liceo per tanti anni. Mi incuriosisce, mi avvicino. La vedo non esitare a cambiarlo e pulirlo, con cura ma con durezza. Un giorno mi racconta che con quell’uomo non si sono mai sopportati granché. È il cognato, il fratello del marito scomparso circa vent’anni fa.
Sono qui per lui. Per Amore di mio marito. Neanche lui si prendeva molto col fratello, litigavano sempre. Ma non avrebbe mai voluto che lo lasciassi solo in un letto d’ospedale, senza nessuno che si prendesse cura di lui. Quanto l’ho amato, mio marito. E quanto mi ha amata. Sei la vita mia. Me lo diceva sempre, tutti i giorni. E io oggi pulisco la merda del fratello per lui. Per mio marito.
Io ascolto in silenzio. Poi la abbraccerei, spontaneamente, senza dire una parola, con gli occhi lucidi. Mi limito a ringraziarla per quella breve e intensa storia che mi ha regalato, per gli occhi con cui me l’ha raccontata. È un piccolo istante di poesia, colta senza averla cercata. Preziosa