Catene
“Quando il Signore le nostre catene
strappò e infranse, fu come un sogno.”
Io grido spesso. “Basta, vado via” è la mia frase preferita.
Ricordo che da bambino ero angosciato dal rumore del treno che frena sulle rotaie: quello stridio che si insinuava volgare e tagliente dentro gli orecchi; nella mia fantasia erano tante piccole fatine sporche di ruggine che da sotto i vagoni urlavano per lo sforzo sovrumano impiegato nell’arrestare la locomotiva.
Così, mosso dalla ribellione e dal senso di giustizia che si confanno a tanti bambini, giunsi alla conclusione che avrei preso solo treni che non si fermavano mai.
Ero predestinato alla ricerca.
È così che mi sento adesso: sopra un treno che non si arresta mai.
Una chiave: qui abitano le mie perversioni.
Le chiavi dovrebbero solo aprire porte chiuse, non chiudere porte aperte.
Eccomi sepolto, invece, sotto questa silenziosa solitudine dentro la quale non ho mai accolto nessuno; non un rumore, vi prego! Non svegliate i demoni che tengo sopiti negli antri oscuri della mia psicopatia.
Ho sigillato dentro tutto il male anziché aprirmi al mondo che, sì, mi avrebbe giudicato ma una volta piante tutte le lacrime so che si risale: domani sarà in voga un nuovo scandalo.
Ora poche catene di sole nella stanza buia faranno compagnia al mio corpo nudo e bianco.
Apro la porta per richiuderla mai più.
È un 29 Agosto che ti si appiccica sulla pelle, ti lecca i capelli sulla fronte finché li puoi sopportare;
riduco i movimenti all’essenziale perché le fatine della vecchia sedia consunta non sovrastino coi loro lamenti il silenzio della casa vuota: un aedo che racconta senza parole tre generazioni di segreti, vergogne, paure, incomprensioni, omissioni.
Di tutte le storie raccolte nelle copertine rigide, nei pezzi di carta improvvisati, non rimane che una scatola chiusa, in un angolo, ricoperta da un sottile strato di consapevolezza:
so di non voler sapere.
Mi guardi? Cosa guardi? Sai da che parte gira il mondo? Io sì.
Tu non fai domande, è l’animale che ti abita a muovere le tue azioni.
La gente soffre e tu felicemente ignori.
Credi in Dio, celebri il capodanno e ti entusiasmi per il conto alla rovescia, ti piace non pensare che dentro ognuno di quegli ultimi numeri è già scritto l’abietto, superficiale, commiserevole destino del tuo nuovo anno grondante di piccoli successi aleatori.
Acquisti veleno: per pelle, capelli, viso, da mangiare; nutri così la tua umanità violentata che cade in briciole a galleggiarti accanto fra flutti di piscia, diarrea, vomito e sangue.
Guardati, appeso a convenzioni, luoghi comuni e frasi fatte: “Tanto di qualcosa devo pur morire!”.
Misero, la tua felicità sta dentro una sigaretta ancora accesa abbandonata su un posacenere dal negro beccato a fumare di nascosto durante il turno di lavoro.
La mia felicità, invece, sarebbe vederti morire un secondo dopo aver capito quanto sei piccolo e inutile.
Le vie solitarie del centro storico indossano una graziosissima brezza autunnale mentre vestito di una insolita serenità mi lascio cullare verso sera da immagini che soltanto io so vedere; la rassegnazione, compagna mia vecchia e adorata, mi tiene la mano passeggiando fra le persone che distanti mi sfiorano, che a volte mi urtano e chiedono scusa, a volte semplicemente non mi notano.
Tutto mi scivola accanto senza nessuna importanza, mi attraversa senza chiedere o spiegare ed io, adesso, accoglierei la morte come un dito del miele più dolce fra le labbra.
Sudato apro gli occhi, la vita mi dorme a fianco sul letto torrido dell’esistenza nella quale sono giornalmente impiegato, servo degente per un malore che si chiama umanità.
Noncurante calpesto i batteri sull’asfalto in questa mattina fuori dal tempo, dimenticata dalle stagioni, con il sole abbozzato a pastelli in un cielo che mimetizza i tetti dei palazzi alti; appesi o malamente in piedi vedo uomini in giacca grigia e cravatte con fantasie grottesche sopra i cornicioni di un vasto edificio anonimo, senza voce, senza occhi, che mi inquieta nonostante sia lontano perché addosso sento il suo sguardo senza vita; impiegati metallici che si spingono senza fiato contro le pareti privi del coraggio di guardare sotto per il rischio di precipitare giù ma che, in fondo, vorrebbero tanto cadere con la speranza imbracata sulle spalle.
Fine Novembre è il periodo peggiore: l’autunno ha ormai riposto le brezze e i colori estivi nella parte alta dell’armadio e chiede in prestito a Dicembre qualche pioggia invernale poco fredda; non è ancora tempo di cercare l’amore sotto una coperta calda.
È l’occhio del ciclone chiamato consumismo, per alcuni è Natale, per me è quiete fittizia dentro fittizi rumori ma è proprio dentro il rumore che il silenzio ha un fascino inesplicabile; così, mentre la gente è normalmente investita dall’istinto di comprare, io normalmente serro le porte lasciandomi chiuso dentro.
In fondo non è che l’attesa di questa illusione a spingere i
sassi lungo la salita
Geme il tuo letto mentre zitta mi accogli dentro di te e trattieni l’aria in grembo come un bambino che non vuoi concedermi.
L’amore che provo per te stanotte si chiama perdono, giunge a sbiadire le menzogne di cui è lastricata la nostra storia; adesso mi riesce addirittura facile chiedermi perché mi guardi con quegli occhi pieni di tristezza, quegli occhi che mi uccidono ogni volta che i nostri peli pubici si abbracciano.
L’abito fresco del caldo estivo che giace oltre la finestra suggerisce che la bella stagione è prossima a finire, così come il ricordo di noi due. La luna fuori guarda distrattamente.