Davide
Potrei scrivere mille storie, mosaico monocromatico di grigie denunce raccolte in anni di lavoro. Invece… scriverò la mia.
La scriverò seduta sulla nostra panchina scrostata dal sole e dalla salsedine, ascoltando il suono eterno delle onde, inebriandomi del profumo di alghe e di scogli.
La scriverò nel taccuino più bello: quello che mi regalasti.
La scriverò aspettandoti. In questa lunga ora che mi separa dal rivedere il tuo volto, illuminato dai riflessi cerulei del mare. In questo mite pomeriggio d’estate. Il mio animo, ora limpido e puro, profuma di brezza leggera, mare quieto e profondo, rifrange pensieri lontani… miraggio.
Orizzonte.
Silente, infinito presente.
Partii per toccarti e oltre materia ti raggiunsi,
credetti al mio viaggio e capii.
Non avrei mai potuto esserci…
Versi affiorano da lontano… quel lontano mare della mia fanciullezza popolato da moltitudini di esseri viventi: i miei sogni. Sognavo di diventare una brava mamma quando nei lunghi pomeriggi d’inverno giocavo in casa con le bambole. Mia madre stirava e, con voce rassicurante, mi suggeriva come gestire il mio “bambino”.
Era brava a tirar su bambini: terzogenita, ed unica femmina di sei figli, non le avevano permesso di continuare gli studi perché serviva aiuto in casa. Così trascorreva gran parte della sua giornata badando ai fratelli più piccoli e collaborando con la nonna nelle faccende domestiche.
A vent’anni conobbe mio padre: lavorava da apprendista nella piccola ditta edile che ristrutturava la palazzina di fronte casa. Da tempo i due ragazzi si salutavano timidamente; un giorno papà disse a mamma che sognava un futuro diverso, una famiglia, un lavoro gratificante. Nacque tra loro una tenera amicizia che diventò amore in pochissimo tempo.
Papà trovò lavoro da tecnico specializzato in una grande impresa del capoluogo. Subito dopo il matrimonio si trasferirono in città. La mia nascita fu per loro un grande evento. Mi seguivano instancabilmente con amore e aspettative: a scuola, in palestra, al corso d’inglese.
Papà mi regalava tanti libri, il mio preferito era Piccole Donne. Leggevo ed ero Jo, abile scrittrice dal temperamento vigoroso, forte e determinata. Me lo regalò all’età di sette anni. Fu l’ultimo regalo… lo custodisco ancora. Ci lasciò improvvisamente volando via dalle nostre vite. Un incidente sul lavoro. Precipitò da un ponteggio, e noi con lui.
Ma è un dovere vivere, ed io dovevo crescere e studiare. Così mamma iniziò a lavorare come donna di servizio per sostenere i miei studi. Mi rifugiai nelle mie letture e cominciai a scrivere.
Agli esami di terza media mi presentò quell’uomo: bello ed elegante. Ci portò al ristorante per festeggiare il mio diploma. Mamma era contenta: aveva ritrovato una figura protettiva. Dopo pochi mesi venne a vivere da noi. Diceva di amare la mamma. Diceva di amare anche me. Di amarmi come una figlia. In lui cercavo un padre…
e mi fidai.
In breve tempo il mio mare fu colpito da basse maree.
Ma che realtà? Ma che amore? E fino a che punto?
Mia madre subiva plagiate violenze. Percepiva condizionate paure che la costringevano a nutrirsi di quell’insano rapporto. Annaspavamo dentro un caliginoso presente, prigioniere della paura d’intendere che rendeva il quotidiano meno doloroso. Abusava delle nostre anime.
Avevo appena compiuto sedici anni. Smagrita e inappetente, vomitavo di nascosto. Una sera mamma andò a fare la notte vegliando un’ammalata. Quella sera, ancora una volta, gli disobbedii con tutte le forze. Ancora una volta mi picchiò. Ancora una volta… Arrivò l’alba e con lei mia madre.
Rannicchiata nell’angolo dell’umida cucina, febbricitante e con le vesti strappate attorno ai lividi, provavo vergogna di me stessa. Fu guardandomi in quelle condizioni che mia madre trovò il coraggio di affondare nel dolore. Riaffiorò esanime, sputandoglielo addosso con la potenza della rabbia e del rancore.
Gemeva e urlava stringendomi al petto. In quella cruda sofferenza percepii, in lei, una nuova, ritrovata forza.
Fuggimmo a passo spedito. Con il volto deformato dalla rabbia, mia madre digrignava parole incomprensibili; le correvo dietro e la osservavo angosciata: piangeva a dirotto, ansimava. Credevo che l’Eterno mi avrebbe punita. Alla Questura: tante domande, tante risposte e infinite lacrime.
Quel dolore incontenibile venne trascritto in poche pagine. Poche parole che avevano la pretesa di rivelare l’infinita devastazione, ricordi offuscati da nubi.
Al centro di accoglienza ebbe inizio una nostra nuova vita. Una nuova vita cresceva dentro me. Vita che volli con tutta me stessa e che venne alla luce dalla mia determinazione. Tramortita di materno dolore, accolsi tra le mie esili braccia quel tepore vellutato. Lo sfioravo con le labbra, lo annusavo. Ricordo bene il suo profumo…
Maternità mi fu imposta e feci mia! Legge di natura, amore incontenibile, tenerezza, batticuore, sentimento ancestrale, terra e acqua… Oltre ogni ragione, primordiale. Era mio figlio!
Era mio e lo chiamavo, e il suo nome suonava come musica. Venne adottato da una famiglia di Palermo. Mia madre ed io andammo a vivere in un piccolo appartamento. Mi iscrissi al Liceo. Mi inabissai negli studi. Mamma lavorò sodo e mi sostenne in tutti i modi. Ero il suo riscatto, ero il mio riscatto.
Presi due lauree, di cui una in giornalismo. E oggi scrivo sulle maggiori testate e vivo in giro per il Mondo.
L’intenso profumo di alghe e scogli mi inebria lo spirito! Seduta su questa panchina scrostata dal sole e dalla salsedine, osservo i colori del tramonto e scrivo. Arrivo sempre prima al mio appuntamento: una quarantenne e un bel giovanotto! Cresciuto, amato, educato con i diritti di qualunque altro ragazzo. Lo aspetto da quasi un’ora, e scrivo.
Ci incontriamo ogni qualvolta torno a Palermo. Mi piace arrivare in anticipo, non posso bruciare neanche un istante del nostro tempo. Ci racconteremo nel nostro ristorantino vicino al mare, gustando un buon primo e dell’ottimo vino bianco. Sono orgogliosa di mio figlio!Frutto di un delirio, mio figlio è sempre stato la mia ragione di vita. A sedici anni ho ascoltato il mio amore. Eccolo il mio ragazzo. E’ arrivato.
«Davide!» Si avvicina a passo lesto.
«Mamma!» Ci abbracciamo.
La mia storia stava scritta nel suo nome. Il frutto del dolore divenuto arma per decapitare il Gigante.
Lo uccisi con l’amore: sasso scagliato contro i pregiudizi che uccise anche i miei sensi di colpa e le paure. Così recuperai la mia adolescenza e ricostruii la mia giovinezza, riappropriandomi dei sogni e del coraggio. Capita che, in certi momenti, la donna abile e risoluta, stimata per prestigio, carisma, fermezza, riveda il Gigante. In quei momenti tende quel sasso, liscio e appiattito. Lo tende con la fionda dell’intelligenza e lo lancia energicamente, con mira precisa. E ancora una volta il figlio è la sua spada.
«Davide…».
Il tuo volto tra le mani.
«Abbracciami ancora!»