La complessità di certi Discorsi
Un istituto di ricerca americano ha fatto una analisi insolita. Ha preso gli ultimi settanta messaggi sullo Stato dell’Unione: cioè quei discorsi che i presidenti degli Usa diffondono a inizio anno. A partire da Roosevelt per arrivare a Obama. Non hanno guardato i contenuti politici bensì il linguaggio, la comprensibilità. E sono arrivati a questa conclusione. A metà degli anni Quaranta, per comprendere il discorso del presidente degli Stati Uniti occorreva essere arrivati almeno all’ultimo anno della scuola superiore. Oggi invece è sufficiente il primo anno delle superiori.
Ma ovviamente non è cresciuta l’istruzione o l’intelligenza, semplicemente i discorsi si fanno sempre più semplici, modesti, dove il ragionamento è sempre meno e si punta all’ efficacia della frase a prescindere dal suo contenuto. Non si prova più a condurre chi ascolta verso un periodare ragionato, bensì a catturare l’attenzione e l’interesse con frasi ben costruite prima proprio con questo esclusivo scopo. Tanto più che, così dicono le ricerche, le persone tendono a non fidarsi di chi non riescono a comprendere bene. Quindi la banalità, l’ovvio, il luogo comune e il concetto indimostrato tendono a prendere il sopravvento.
Ma non si può pensare a una sindrome americana. Se un qualche istituto facesse lo stesso in Italia, mettendo insieme le parole di Aldo Moro, di Gaetano De Martino, di Enrico Berlinguer, di Giulio Andreotti o Amintore Fanfani, farebbe la stessa scoperta. Quelli di quaranta o cinquant’anni anni fa erano forse troppo complessi, oggi il linguaggio assomiglia più a un insieme di slogan pubblicitari, di concetti indimostrati, di parole assimilabili più con la pancia che col cervello. E si vede.