FALSTAFF
E’ sogno o realtà? Possiamo schematizzare in questi due termini l’ultimo capolavoro verdiano.
Il sogno inteso come illusione e desiderio e la realtà quale sinonimo di disincanto misto a solitudine sono le componenti principali del FALSTAFF. Nella sua ventisettesima opera, se contiamo anche il Requem. Giuseppe Verdi si allontana dal repertorio melodrammatico per comporre il suo testamento musicale con un’opera che viene generalmente inquadrata nel genere comico. In realtà in Falstaff troviamo un Verdi che disorienta l’ascoltatore rispetto l’immagine usuale del compositore: la musica è un lavoro accurato di cesello e il libretto di Arrigo Boito un miracolo teatrale che riesce a rendere capolavoro la commedia di William Shakespeare. Falstaff è il vertice assoluto del talento verdiano e rappresenta musicalmente il culmine della sua composizione dove musica e scena insieme creano un mondo magico dalle mille sfumature dove sogno, illusioni, realtà, grigiore, rimpianto si avvicendano alla nostalgia della gioventù e ad un sottile ma garbato pessimismo. Il corpo è stanco, vecchio e appesantito ma l’animo è leggiadro come quando da giovane era “ paggio del Duca di Norfolk sottile, sottile, sottile” Si racconta ad Alice e si descrive “ un miraggio vago, leggero, gentile, gentile, gentile”, era il tempo della sua primavera d’età “era il tempo del mio verde Aprile, quello era il tempo del mio lieto Maggio. Tant’era smilzo, flessibile e snello che sarei guizzato attraverso un anello”. Il mondo reale adesso è sostenuto dai ricordi e da miraggi; seduto in osteria medita quasi appisolato mentre la sua mente è popolata da visioni fantastiche che gli frullano in mente assaporando un buon bicchiere di vino che gli rende meno amara la quotidianità.
Sperando che il sogno di essere amato si trasformasse in realtà
Qui il comico e il fantastico si fondono in una efficace commistione. Alla visione onirica appartengono le arie di Fenton e di Nannetta e l’orologio che batte la mezzanotte quando Alice attribuisce le parti ad ognuno per la mascherata e la burla da realizzare nei confronti di Sir John vecchio, ingenuo e sognatore; al frammento reale aderisce l’ultimo atto quando la sua opulente figura tanto derisa da Alice e dalle altre comari lo salverà dal bagno sul Tamigi. Egli che era “corso a farsi bello” per incontrare la donna desiderata sperando che il sogno di essere amato si trasformasse in realtà.
Quando ha consapevolezza, o meglio, quando ammette a se stesso che era oggetto di derisione, esibisce un atteggiamento autocritico e autoironico “son io son io che vi fò scaltri”. Questa autoironia è l’autoironia di un anziano Verdi che come il suo personaggio si accomiata con una fragorosa risata fino ad arrivare alla fuga finale dove ormai i sogni sono svaniti e si è consapevoli che la realtà è burla, che tutto il mondo è burla!
Abbiamo assistito pochi giorni fa alla Scala di Milano ad un allestimento dell’opera verdiana adattato in una Windsor anni cinquanta con la regia di Robert Carsen e diretta magistralmente dal M° Daniele Gatti.
E’ una splendida produzione questa del teatro milanese anche perché già al suo nascere nell’intenzione del compositore l’opera ha richiesto per raggiungere una perfetta esecuzione: un protagonista autentico, un direttore d’orchestra sinfonico, una grande orchestra, una bella serie di voci primarie e comprimarie.
Tutti ingredienti ben calibrati che hanno trasformato la splendida macchina dei sogni che è il teatro d’opera in una divertente realtà. Nel ruolo del titolo uno straordinario Nicola Alaimo, un Falstaff comico ma nel contempo raffinato e malinconico.
Possente fisicamente e vocalmente che pronuncia, articola, canta ogni nota rendendo il suo personaggio credibile sia nel versante scenico che in quello della tradizione dei grandi baritoni.
A lui sempre in viaggio per allietare il pubblico di tutto il mondo gli abbiamo posto qualche domanda.
Spesso in modo sommario e generico si inquadra l’ultima opera di Verdi come un’opera comica, e il personaggio di Sir John quasi buffo, come hai costruito e interpretato i “tuoi” Falstaff?
“Comincerei subito con il dirti che è il mio ruolo del cuore, insieme a Simone Boccanegra e Marcello in La Bohème. L’ho studiato diciotto mesi prima di debuttare e nonostante tutto sentivo di non essere ancora pronto… La prima volte è stata a Pisa ma ero davvero giovanissimo e mi resi conto di doverlo ancora perfezionare. E siccome NON SI FINISCE MAI di studiare, in questi anni l’ho plasmato, l’ho capito molto di più, l’ho sentito come parte integrante della mia vocalità e dell’interpretazione assolutamente non facile di questo grandioso personaggio con cui Verdi si rispecchiava in alcuni punti… Ancora oggi che canto Falstaff regolarmente sento che molti particolari potrebbero sfuggirmi quindi cerco sempre e pian piano di carpirne i sentimenti più profondi quelli buoni e quelli cattivi quelli esuberanti e quelli profondamente intimi e molto tristi.. Non dimentichiamo che Falstaff conosce benissimo la borghesia, la nobiltà e i modi di fare di quel mondo dorato che per tutta la sua vita, tutto sommato, ha sempre disprezzato! È un uomo tutto d’un pezzo, avendo fatto la guerra, è fine dicitore, è COLTO, usa una terminologia fuori dal comune e tutto sommato la vecchiaia lo aiuta ad essere e a trovare quell’ingenuità che in gioventù avrebbe voluto avere. Questo e tanto altro è Falstaff! Ed io lo adoro, incondizionatamente. Di sicuro non finirò mai di imparare da questo gigantesco ed eclettico personaggio che un trio formidabile di artisti come Shakespeare-Verdi-Boito ci hanno donato.”
Continua il grande cantante a delineare il personaggio nelle sue sfaccettature segno di uno studio approfondito oltre che musicalmente anche interiore:
“Ci tengo anche ad approfondire questo meraviglioso e complesso personaggio: Fondamentalmente Falstaff vive la sua solitudine con un carattere che probabilmente non gli appartiene ma lo aiuta a scacciare quel “demone” che rappresenta la solitudine e la vecchiaia penosa di una persona assai sconfitta dalla vita, quel demone che lo accompagna e sta pericolosamente sempre in agguato. Ecco quindi l’illusione e il sogno di una esuberanza e vanagloria e la stressante corsa di qualcosa che ormai più non è o non è addirittura mai stato (bello, seducente…), nel terzo atto ne viene sopraffatto e l’illusione quasi lo sbeffeggia, gli si para davanti e lo costringe ad aprire veramente gli occhi: adesso la realtà ha l’egemonia e così realizza di essere grasso, vecchio, sta morendo, non ha quasi più dignità; ha perso anche l’onore e si ritrova solo con se stesso a dialogare con un cavallo nella regia meravigliosa di CARSEN. La sua forza, l’unica che forse gli rimane, è quella di non mostrarsi mai sconfitto agli occhi degli altri: “Ogni sorta di gente dozzinale mi beffa…” ma lui sa benissimo che uomo è stato e così nella fuga finale non può far altro che gridare a tutti quanti: “tutto nel mondo è burla….” Questo è Falstaff per me. E devo ringraziare Eike Gramms, recentemente scomparso, regista e attore Shakespeariano in gioventù, che in due mesi ha portato a termine un lavoro certosino con me e per me su questo grandioso personaggio. A Lui devo molto e non lo dimenticherò mai…
Tante volte nel hai vestito i panni di Falstaff nella tua sfolgorante carriera e adesso, alla Scala, quali emozioni hai provato nell’interpretare questo ruolo?
Il pubblico della Scala è un pubblico esigente, quindi per tutte le dieci recite agli applausi finali ero terrorizzato. Invece mi hanno riservato un’accoglienza meravigliosa che sarà impossibile dimenticare. Ogni sera si è trasformata in un trionfo, ogni sera ho provato una grandissima emozione e addirittura in tre recite, non lo nascondo, ho pianto davanti a loro, ho pianto davanti a questo pubblico che mi acclamava, ed era il pubblico del Teatro alla Scala! Credo sia l’esperienza più importante della mia carriera, finora. E da credente, ringrazio Dio.
Quanto conta per un artista la scelta della regia nell’ambientazione della storia in un periodo diverso da quello scelto dal librettista?
La regia di Robert Carsen è formidabile, moderna ma non troppo, innovativa, fresca, genuina, mai volgare. Ha studiato alla perfezione tutti i personaggi, dedicando ad ognuno di loro un posto di assoluta rilevanza all’interno del capolavoro Verdiano.
L’idea di ambientare il primo atto in una camera d’albergo stile anni cinquanta è fluida e fa divertire tantissimo anche gli interpreti, cosa fondamentale nel mondo del teatro. Ad esempio la scena della “casa di Alice Ford” si svolge una super cucina meravigliosa e che mia moglie, quando si aprì il sipario al Met, mi disse subito “voglio una cucina così!”. Anche in questa occasione sogno e realtà si mischiano e la finzione scenica dà lo spunto ad aneddoti di vita privata.
Carsen ha disegnato una regia che non urta gli occhi e fa sempre in modo che il pubblico possa stare ben attento alla parola scenica “detta” al momento, senza mai farlo distrarre da altre inutili scenette di riporto alle quali diversi registi accorrono per “riempire”. In un’opera come Falstaff, Robert CARSEN ha compreso perfettamente che quella musica e quel libretto fanno tutto quello che è necessario, senza dover stravolgere nulla… Questo mi piace di Lui e del suo straordinario modo di lavorare..
Ascolto Nicola Alaimo e confermo ancora una volta che un artista non canta solamente il libretto ma lo studia nei particolari e lo assorbe nel profondo rimandando al pubblico le sue emozioni. Solo così il sogno di assistere ad uno spettacolo può diventare reale fruizione di musica, parole e recitazione.