Sapori, paure e sogni a Lisbona
Novembre è un mese un po’ strano, si rimane invischiati in un grigiore che non si mescola ancora alle luci di Natale. È il mese della pioggia e degli stati d’animo uggiosi.
Non avrei mai pensato che proprio nel novembre di un anno fa la mia vita avrebbe fatto un salto. Di duemila chilometri. Per poi farne un altro quasi un anno dopo per raggiungere più cuori e più occhi qui a “facciunsalto”. Ho sempre immaginato i cambiamenti come qualcosa di drastico, un rito di passaggio, una cerimonia di iniziazione, delle sirene intermittenti con altoparlante connesso.
E invece una sera ho ricevuto una chiamata, una conversazione breve, qualche gridolino soffocato dopo aver premuto il tasto rosso con il cuore in gola. E mi sono sentita un po’ Cesare, pronta ad andare, a conquistare, ad assaggiare, ad imparare. Un po’ invincibile. Non avevo fatto i conti con quella strana sensazione di vuoto allo stomaco quando ho visto mio padre rannicchiato in un angolino del divano, in silenzio, la testa poggiata tra le mani. Impulso contro impulso. Il nuovo che ingoia tutto l’odore di buono di casa mia, immagini non ancora messe a fuoco che sgretolano tutte le certezze. E un biglietto di sola andata.
Novembre mi ha regalato la capitale lusitana, Lisbona: la crema dei pasteis de nata, gli infiniti modi di cucinare il bacalhau, le rughe delle nonne portoghesi, una lingua che sembra un continuo fruscio e mi ha lasciato in bocca il sapore di cocco del pão de deus. Novembre mi ha dato e tolto in misure diverse, delicate e prepotenti. Mi ha insegnato una nostalgia più dolce della mancanza. In risposta ho imparato a portarmi gli affetti e gli odori incastrati in quel lembo d’anima che non risente del tempo che scalfisce, cambia e sbiadisce.
Stesso novembre un anno dopo. Conosco due persone che rispondono allo stesso nome di Angela. Una si bagnava nel Mar Mediterraneo un po’ alla volta, prima prendendo confidenza con la temperatura, poi immergendoci un piede, una coscia, fino all’ombelico trattenendo il respiro e la pancia in modo che l’acqua toccasse il meno possibile la pelle. L’altra ha visto l’Oceano Atlantico, l’ha studiato per un po’, ha assunto un cipiglio preoccupato e poi si è tuffata. Senza mezze misure. Senza chiedersi se l’acqua fosse fredda. Senza valutare il modo migliore. Perché solo un anno dopo ho capito che in realtà il famigerato “modo migliore” non esiste.
Ho deciso di lasciarlo indietro tra i bagagli ingombranti.