Il Violino
Pioveva. Casa mia era distante. Suonava, suonava un violino. Ne ero sicuro. Distante sentivo le grida. Aerei. In ogni angolo di cielo. Sganciavano bombe sulla capitale. Da lontano si vedevano colonne di fumo. Lì vicino, il suono di quel violino si sentiva sempre più forte. Suono, morte. Corde, bombe. Polvere e note. Prendo il telefono e provo a digitare il numero del mio più caro amico. Squilli a vuoto. Iniziavo a preoccuparmi seriamente della situazione.
In sottofondo, sempre quel violino. E le bombe. Mi pareva fosse Mozart. Non lui in persona.
D’improvviso, il frastuono. Una bomba veniva sganciata a pochi metri dalla mia testa. Il muro dietro al quale avevo trovato riparo iniziava a crollare. Una pietra mi colpiva in testa. Svenivo con l’orchestra in mente.
Lo trovai svenuto sotto un muro. Era svenuto, ma aveva un volto sereno. Il volto sereno come quello di una persona che stava ascoltando musica classica. Se l’avessi incontrato per strada, in giorni normali, non gli avrei rivolto nemmeno uno sguardo. Guardarlo lì, a terra e indifeso. Mi faceva una gran tenerezza.
Mentre camminavo avevo sentito il suono di un violino che in qualche modo mi distraeva dalle bombe. Riuscivo a prendere coraggio cercando di seguire quelle note. Quasi a volerle raggiungere, quasi a voler abbracciare colui che ricreava quel suono. Non ero molto esperta di musica classica. Però doveva essere un’opera importante. Difficile credere che l’autore fosse della mia stessa città.
Stava per calare la sera e mentre provavo a risvegliare quello sconosciuto, cresceva in me l’ansia e la paura che qualche altra bomba raggiungesse le nostre teste, mettendo a repentaglio la nostra vita. Intanto il violino aveva smesso di suonare da qualche minuto. In due potevamo trasportarlo più facilmente. Ma avevo perso di vista la mia amica, in mezzo a quel viavai di gente.
Provavo a risvegliarlo, ma niente. Mi restava solo di trascinarlo in qualche modo fino a casa, prima che giungesse la fine. L’eco delle bombe era cessato per qualche istante. Le guerre portano sempre alla fine.
Al mio risveglio sentivo ancora l’orchestra. Magari qualche violino era un po’ scordato, ma la sentivo. Non mi trovavo a casa mia, di questo ero sicuro. Mozart era morto da almeno un paio di secoli. Anche di questo ero abbastanza sicuro. Ero lucido. Mi trovavo in un letto. Non molto grande, non molto caldo. Un lenzuolo bianco mi copriva fino all’addome. Avevo un gran dolore alla testa, probabilmente avevo perso sangue. A stento riuscivo ad aprire gli occhi, a stento riuscivo a muovere gli arti.
Dischiudendo le palpebre, scorgevo il suo volto. Occhi neri, lucenti. Di quella luce malinconica tipica di chi ha sofferto e non lo ha mai detto. Due graffi che partivano dalle tempie per scendere sugli zigomi, appena sotto quegli occhi. Carnagione chiara, denti bianchissimi. Folti e lunghi capelli neri.
La prima cosa che vedevo era un sorriso. Il primo dopo tantissimi anni. In qualche modo mi sembrava di sentire ancora un violino. Avevo una gran voglia di abbracciare quella figura così limpida. In qualche modo mi sembra di essere stato sempre a casa. Forse le guerre non portano solo la fine.
Non riusciva ad aprire gli occhi. Avevo già immaginato una sua possibile reazione furiosa. Però, pensavo, gli ho salvato la vita. Aveva perso tanto sangue dalla testa. Per fortuna ero riuscita a bloccare l’emorragia. Quella sua serenità mi inquietava: sembrava avere in testa sempre quella musica classica. La sua barba folta e i capelli rasati.
Mentre apriva gli occhi, l’osservavo. Aveva, oltre alla serenità, una sorta di malinconia di chi ha patito molto. Gli occhi neri che rendevano la sua espressione rude, dell’uomo dal passato che non può raccontarsi. Quella sua maglietta stracciata mi trascinava di nuovo in mezzo all’aria delle bombe, dei violini. Della morte per strada e di fratelli separati. Mi veniva la voglia di abbracciarlo.
Forse le guerre non portano solo la fine.