Non sembrava un inverno freddo in Polonia
Ridevamo in treno, tenendoci la mano, per non pensare a dove stavamo andando.
Era febbraio, un febbraio non troppo freddo a dire il vero, per essere in Polonia. C’era il sole in alto e un po’ di neve, in basso, che resisteva stoica. E c’eravamo noi che ridevamo e ci stringevamo in una limpidissima mattina, in inverno.
Cuffia e sciarpa, io. Occhi azzurri lui. Di quell’azzurro che guardi e che sai essere in grado di salvarti. Dalle brutture, dalle insicurezze, dalle storture.
Non sembrava un inverno freddo in Polonia ma un vento acuto e crudele non ci dava pace una volta scesi dal treno.
Eravamo alla stazione di Oświęcim.
La traduzione in lingua tedesca sarebbe Auschwitz ma ogni tanto è bello restituire a certi luoghi anche la loro dignità linguistica e non consegnare (anche) le radici a coloro che hanno fatto razzia di tutto. C’era poca gente quella mattina. Forse perché era presto o forse perché quando ti ritrovi davanti a quel cancello sparisce tutto, entri in una bolla ed esisti solo tu. E quel che vedi.
Inaspettatamente è un luogo ordinato Auschwitz, ma si sa il rigore e l’ordine sono necessari per il buon esito delle operazioni. Ed è un ordine asettico, quasi chirurgico, che disumanizza anche il visitatore che cerca continuamente un’ancora nel presente, per ricordarsi di essere vivo.
Cammino tra i morti e mi consegno all’insensatezza.
Quando entro a Birkenau smetto di respirare.
E vengo assalita dall’immensità. E dall’insensatezza. E non c’è modo di tornare indietro. Non sarò più quella di un minuto fa.
Di Birkenau non si vede la fine.
Di Birkenau si vedono solo i camini. E le rotaie. E il nodo alla gola che stringe sempre di più e toglie a ogni mio pensiero anche l’ultimo barlume di razionalità.
Lì, su quello stesso prato dove cammino io. Lì, con i piedi affondati in una neve più fredda di quella che affronto io. Lì, camminavano persone come me. Lì. E io non riesco a capire. Ci provo ma non riesco a capire perché.
Cammino tra i morti e mi consegno all’insensatezza. Forse è questa l’unica vera e possibile eredità.
Quando prendiamo il bus per Cracovia è ormai pomeriggio. Iniziamo a parlare e a tenerci per mano.
I suoi occhi azzurri. I miei occhi verdi. Ci saremmo salvati, probabilmente, grazie ai nostri colori. Non avremmo mai calpestato quei prati.