Fotografie post mortem
Le sorprese sul web non finiscono mai. L’altro giorno mi sono imbattuta, anzi sono stata fagocitata da alcune fotografie post mortem pubblicizzate in un link che invitava a cliccare “Solo in pochi vanno oltre la terza foto…”. Una frase studiata ad hoc proprio per ottenere l’azione desiderata, ma tant’è, sono femmina, e come tale ho cliccato. Onestamente sapevo dell’esistenza di foto scattate a dei cadaveri, ma non avevo mai approfondito il discorso delle foto post mortem di epoca vittoriana o giù di lì. Sono sempre stata una patita di film horror (questo prima di rimanere incinta ché da lì in poi le pieghe del mio io frammentato seguono una direzione per me inedita) e storie macabre, ma quelle foto hanno un qualcosa di denso, un’angoscia così solida che non ti penetra dentro, ti si posa addosso come un velo appiccicoso e diventa come una seconda pelle.
Clicco. Primo scatto. Foto di gruppo. In ordine di altezza. Cinque bambini vestiti di tutto punto, ordinati, lindi, ma con un’espressione agghiacciante. L’ultima della fila, la piccolina, a dispetto dei suoi capelli ben abboccolati e raccolti da un fiocco è morta. Tradita dalle manine rigide, riprende la postura di una bambola, ma il disappunto nello sguardo del suo piccolo vicino di foto la dice lunga.
Continuo a cliccare fino a una foto che mi arriva dritta dritta in faccia, come quando lanci il frisbee al cane programmando male l’effetto e ti ritorna proprio in mezzo alla fronte. Una mamma è seduta su una sedia di vimini, ha la sua creatura in braccio, ma qualcosa stona, e so già cos’è.
La bambina ha un abitino bianco come da cerimonia, con fiocchi, fronzoli e fiorellini, ma la sua primavera non vedrà mai più nessun fiore sbocciare. Ha gli occhi aperti, fissi, immobili, come le bambole “reborn” in vinile. Le manine sono bloccate in una posizione che esprime la rigidità del suo stato. Ma la cosa che più mi inquieta è la donna. Ha il busto che protende, anche se in modo appena percettibile, all’indietro. Il volto ha un’espressione che non dissimula il disagio. Le mani sono nascoste sotto la creatura. Quale madre non accarezzerebbe o poserebbe la mano sul piccolo durante lo scatto? Ovviamente se questo fosse vivo. Imbarazzo, dolore, paura? Cosa provava quella donna mentre la ritraevano con la sua piccolina in quella che sarebbe stata la loro forse prima, ma sicuramente ultima foto?
Vado avanti e questa volta a essere ritratta è tutta la famiglia. Un padre con lo sguardo severo, una giovanissima mamma con la bimba in braccio. Sono morti di un paio di secoli fa, non hanno lo stesso impatto dei morti dei giorni nostri
Sono morti di un paio di secoli fa, non hanno lo stesso impatto dei morti dei giorni nostri, perché anche nella nostra epoca le foto post mortem non mancano, basta guardare un quotidiano e un giornale. Ma se la foto di un bambino che galleggia a pelo d’acqua, nel nostro mare, nei nostri giorni, suscita amarezza, rabbia, sdegno, la foto di un bambino morto nei primi dell’800 richiama sentimenti sbiaditi, ingialliti e fagocitati da immagini sempre più forti e sempre più violente a cui i nostri occhi sono fin troppo avvezzi.
Una donna, una madre, riesce ad accordarsi sulla stessa nota di altre madri, e poco importa di che secolo siano, quando hai perso un figlio il dolore è sempre dolore, così nell’800 come nel 2015. Non posso fare a meno di avvertire come un senso di nausea al pensare con quale forza e quale dignità ha spinto quelle mamme a ingoiare quella sofferenza che ti graffia l’esofago come pezzi di vetro, a stringere il corpo freddo e rigido del tuo bambino imbellettato in una posa che fa il verso grottesco a una vita che mai più sarà.