Quel primo giorno, al liceo…
Era una mattina di settembre, calda come da manuale, nelle estati siciliane che non hanno alcuna voglia di far posto all’autunno. Quella, poi, non era un’estate comune; due mesi prima l’Italia di Bearzot e di Pablito Rossi aveva vinto uno storico mundial, al Bernabeu di Madrid. E pochi giorni prima di quella mattina, invece, era stato assassinato il Generale Dalla Chiesa a colpi di Kalashnikov, in una via del centro. Io abitavo a poca distanza da lì ed anche dalla sede della mia nuova scuola, la più antica di Palermo, nata nel 1860: il Liceo Classico Vittorio Emanuele II. Edificio antico, prestigioso, imponente, due passi dalla Cattedrale, accanto alla prestigiosa Biblioteca Regionale e al contempo vicino ai vicoli del Capo, dove ancora c’erano ruderi della II Guerra Mondiale. Grandeur e rovine, Storia e degrado, splendori e brutture, tutto insieme, tutto a confondersi e mescolarsi, uno accanto all’altro: tutto regolare, siamo in Sicilia.
Quello era il mio primo giorno di scuola da grandi, al ginnasio. Entravo, un po’ intimorito, in una dimensione nuova, alle medie mi bastava poco per sfangarla, addirittura per brillare, ora però è un’altra storia. Del Liceo Classico sapevo poche cose e dal mio punto di vista di tredicenne, l’unica veramente positiva era che di solito ci vanno molte ragazze. E per me che provenivo da una classe maschile non era una notizia da trascurare. Per il resto, le voci erano più o meno da terrorismo psicologico: professori duri, rigore e disciplina, sederi da appiccicare alle sedie e inevitabili schiene ricurve da piccoli Leopardi in divenire.
Arrivo nella stradina dove sorge il vecchio portone che si affaccia su una scalinata immensa, di quelle tipiche da palazzo antico. Mi guardo intorno, scorgo varia gioventù, con atteggiamenti sorridenti e spavaldi in misura direttamente proporzionale alla classe di destinazione: quelli del III Liceo, ossia del quinto anno e quindi della maturità, parevano ritrovarsi amenamente come per un raduno festoso, gli altri, via via, più o meno disinvolti, fino ad arrivare a noi, le famigerate matricole. Facce da picciriddi, da bambini, alcuni che ostentano una più o meno credibile disinvoltura, altri palesemente ansiosi. Saliamo, cerco di capire quale sarà il luogo fisico nel quale trascorrerò le mattine dei prossimi mesi e quali i compagni di ventura (o di sventura). Ci sono due-tre ragazze molto carine, spero siano mie compagne, appuro con sommo gaudio che lo sono. Siamo tanti, apprenderò di lì a poco precisamente trentadue. Entriamo in una aula che sa di antico e solenne, tetti altissimi, finestre alte e larghe con vista su una Palermo che potrebbe essere benissimo quella di due o tre secoli prima. So che la scelta di quegli istanti, su dove sedermi e accanto a chi, sarà importante perché probabilmente me la porterò dietro per il resto dell’anno. Alcuni si conoscono da fuori e si mettono insieme, io più o meno a caso finisco in ultima fila, accanto ad un ragazzo dalla faccia butterata che si sforza di apparire tranquillo e sorridente, invece mi da l’idea di essere prossimo a una crisi isterica. Ciao, piacere, Basilio, si, piacere, Biagio.
E poi, dal brusìo dei primi istanti in aula, cala un silenzio assoluto: entra lei. La professoressa, Emma Micela. Mi avevano detto, in quei minuti, che fosse una sorta di istituzione e comunque la docente con più anni di servizio, sempre nella stessa scuola. E la solita serie di aneddoti e leggende, naturalmente in gran parte infondate, che fioccano in questi casi e passano di bocca in bocca come la più rivelata e adamantina delle verità. Mi aspettavo, non so perché, un donnone alto e imponente, invece è bassa, minuta, spalle lievemente ricurve, capelli bianchi e corti. Abito sobrio, mi ricorda subito una di quelle vecchie foto in bianco e nero del secolo scorso. Saluta, il tono è educato ma sobrio, la voce decisa, poche parole e misurate. Guarda il registro, legge i nomi, alza gli occhi, dietro i suoi occhialini piccoli e spessi. Chiama l’appello, ci guarda per associare nomi a facce. Non sapevo cosa aspettarmi, esattamente, da quel primo giorno, se un impatto soft, accogliente o invece duro. Credo però che le sue prime parole io e gli altri trentuno compagni di quel momento non ce le dimenticammo più per il resto del liceo e forse della vita.
le sue prime parole io e gli altri trentuno compagni di quel momento non ce le dimenticammo più per il resto del liceo e forse della vita
“Voi siete al Liceo Classico, lo sapete, si? Ci sono tante opzioni possibili per la scuola superiore e la vostra scelta, o quella dei vostri genitori, è ricaduta sul Liceo Classico. E su questo Liceo, in particolare. Prima di qualunque altro aspetto o presentazione del corso di studi e delle mie materie, mi corre l’obbligo di chiarirvi le idee sul posto in cui siete. E su tre requisiti essenziali che servono, qui. Ascoltatemi bene e poi pensate se ne siete in possesso, di tutti e tre”.
Mentre parla, colgo ogni tanto gli sguardi degli altri. Siamo tutti a metà tra l’attonito, il teso e la faccia di chi sta compiendo il silenzioso countdown personale, prima di darsi alla fuga e scappare, precipitandosi dalle scale e se serve anche dalle finestre. In quel periodo era da poco uscito il film Ufficiale e Gentiluomo, quello in cui Richard Gere viene addestrato da un ufficiale terribile, mi chiedo se per caso quella non fosse la versione italiana e scolastica. E intanto arrivano le tre regole d’oro, i requisiti essenziali per quella scuola, come li chiama la prof:
“Uno: volontà di ferro. Qui si studia, ragazzi, e non c’è spazio per gli incostanti e per chi non ha determinazione”.
Accidenti, partiamo bene. Per me che ero un incostante cronico, buone notizie.
“Due: intelligenza superiore alla media. Avrete a che fare con concetti logici a volte non di facile e immediata comprensione: se non si è svegli, non si fa molta strada, qui.”
Ci guardiamo con Biagio e non abbiamo animo manco di abbozzare una smorfia.
“Tre: buona salute. Questo è un corso di studi duro. Vi stresserà e vi metterà alla prova anche fisicamente. Tenetene conto prima di decidere se proseguire o meno. Ora pensateci bene. In fondo, entro pochi giorni potete cambiare scuola con pochi disagi”.
La mia prima esclamazione, fortunatamente solo mentale, fu sintetica e semplice: minchia! Ricordo lunghi attimi di silenzio in classe. Più che altro di gelo. E poi, per gradire e non perdere tempo in chiacchiere e convenevoli, la Prof partì subito con l’alfabeto greco. Primo giorno, quasi manco eravamo ancora arrivati. Io ebbi il piacere, dato il mio cognome e le evidenti origini, di leggerlo e poi subito di ripeterlo per primo. Feci presente che conoscevo un po’ del greco moderno, non di quello antico, ma lei non parve preoccuparsene troppo: mi disse che ora avrei imparato anche quello antico. A fine giornata uscimmo con poca voglia di scherzare, pieni di dubbi e nell’incertezza di cosa esattamente rispondere alla domanda che a casa i nostri genitori ci avrebbero certamente rivolto appena tornati: com’è andata?
Questo è quello che ricordo del mio primo giorno di scuola, al liceo. Ricordo poi che, chissà come mai, ad inizio ottobre la classe era già passata da trentadue a venticinque allievi. Al secondo anno, in quinto ginnasio, arrivammo in venti, tra cambi di sezione o scuola, e bocciati. Selezione naturale? Combinato e disposto di Darwin + Micela? Chissà. Quello che so è che malgrado quel mio brusco impatto col Liceo Classico, da quel momento io quel mondo non avrei mai più smesso di apprezzarlo e anche di amarlo. Se possibile, dopo la maturità, da adulto, ancora di più. Col rimpianto, in molti casi, di avere attinto, per distrazione o pigrizia, meno di quanto sarebbe valsa la pena da quella infinita fucina di Cultura. Ma a 14 o 16 anni cosa volete che capisca un ragazzo di Cultura.
Avete presente quando si dice che chi esce dal classico considera gli altri tipi di studi “figli di un dio minore”? Non è vero. Però… provate a indovinare cosa mi auguro che vogliano fare le mie figlie dopo la scuola media? Ecco, bravi, avete indovinato.
Un’altra cosa che mi insegnarono, tra le tante, quei primi due anni del Ginnasio, con la Micela, è che come quasi sempre le cose non sono come sembrano. Quella professoressa dall’aspetto burbero e dall’impatto terribile, aveva invece un gran cuore. Voleva bene a tutti i suoi alunni, dal più bravo al più asino. E più ci voleva bene, più si arrabbiava se non esprimevamo il massimo del nostro potenziale. Perché la scuola, per lei, davvero aveva il dovere prima di tutto di forgiare persone, caratteri, anime. E sentiva la responsabilità di fare di noi gli adulti del domani migliori possibili, ciascuno secondo la propria indole e personalità. Per me credo che avesse stima, oltre che affetto. Ma ai miei genitori, nei ricevimenti, diceva sempre: “sto’ benedetto ragazzo… è sensibile, intuitivo, coglie connessioni con una facilità sorprendente. Se solo si impegnasse di più… deve faticare di più!” Grande prof, avevo 14 anni e già lei aveva capito tutto.
sperate chi i vostri maestri abbiano voglia di insegnarvi non solo nozioni, per quanto preziose, ma la Vita. Perché chi insegna questo è un maestro di vita
In qualunque tipo di scuola, dalle elementari alla maturità, per i ragazzi che iniziano in questi giorni il loro anno scolastico, questo è il mio augurio: non fatevi intimorire dalle apparenze e dalle dicerie. Guardate oltre. E sperate che i vostri maestri abbiano voglia di insegnarvi non solo nozioni, per quanto preziose, ma la Vita. Perché chi insegna questo è un maestro di vita e un modello, che sia in prima elementare o in quinta liceo. Buona scuola.