Il passato di Ritorno al futuro
Non c’era mai storia, tra loro e noi. Era già tanto se riuscivamo ad avvicinarci al canestro. E anche quando le squadre erano miste, noi eravamo dei semplici spettatori. Loro erano giocatori di basket della Pepperdine University, Malibù, California.
quello in mezzo sembra una cimice tra due elefanti
Il giorno dopo l’arrivo – era l’alba americana, ma nel nostro corpo c’era ancora la sera italiana – proprio di fronte a quelli che venivano chiamati Dorm, sulla pista da atletica di un campo da calcio, mentre l’Università dormiva, notammo tre tizi correre sotto il sole che stava sorgendo. E li notammo solo per via del fatto che quello in mezzo sembra una cimice tra due elefanti. La scena si ripeteva ogni mattina, ma proprio l’ultima mattina nella quale il fuso orario italiano avrebbe ancora avuto la meglio su quello americano, capimmo qualcosa che ci avrebbe fatto sobbalzare.
La cimice era nientemeno che Michael J. Fox, e nel 1990 da poche settimane era uscito in USA il terzo episodio della saga Ritorno al Futuro. Il vip hollywoodiano faceva footing nel nostro campus! E footing sarebbe stato anche per noi, la mattina seguente. Ci alzammo alle 5, nonostante la crescente voglia di starcene a letto, ma della star di Hollywood del momento nemmeno l’ombra. Ci riprovammo il giorno seguente e, se non ricordo male, la prima settimana andò buca. Non ci perdemmo d’animo e, finalmente, dopo qualche giorno la cimice si fece viva.
rimanemmo parecchio tempo a parlare (anzi: ascoltare) di cinema
All’epoca il mio inglese era ridotto ai minimi termini, ma grazie alle traduzioni di due amici siciliani – il primo figlio di un celebre magistrato; il secondo è ora un noto regista televisivo – potei partecipare alla conversazione. MJF rimase un’oretta seduto davanti a noi, ben oltre il tempo dedicato allo stretching. Nel campus zeppo di studenti, nessuno se lo filava.
Nel corso di quell’estate americana rivedemmo diverse volte l’attore americano. Una volta, in una specie di bar, rimanemmo parecchio tempo a parlare (anzi: ascoltare) di cinema. MJF, tra gli altri, adorava Kubrick, e ci diceva che gli sarebbe piaciuto fare un film con lui anche se dubitava che Stanley lo avrebbe mai chiamato.
Ci raccontò di come la parte di Marty McFly gli venne assegnata in modo rocambolesco e, quel giorno, di chissà quali altre cose, ora dimenticate. In quelle settimane visitammo gli studios di Hollywood, ancora zeppi delle sceneggiature di Ritorno al Futuro III. Molto tempo dopo realizzai che la scena nella quale Doc aggancia il cavo della DeLorean all’orologio si svolge esattamente dove, qualche anno dopo, Forrest Gump avrebbe raccontato la sua storia seduto sulla panchina ad attendere l’autobus.
A Rodeo Drive un pomeriggio intravedemmo procedere lentamente la macchina targata Michel J F, il quale ormai ci sembrava un amico. Si fermò, e dopo averci salutato e dato appuntamento per il footing del giorno dopo (si fa per dire: lui correva come una lepre), ci consigliò un locale nel quale, sosteneva, si facesse una pizza veramente italiana.
Ci andammo. Ma una pizza – poco italiana – costava come una intera pizzeria italiana. Per fortuna il pizzaiolo aveva capito con chi aveva a che fare, e pregò il gestore di non farcela pagare. Andò bene. Quel pomeriggio mi beccai quasi uno sberlone dalla guardia del corpo di Stevie Wonder, in uscita da un negozio dove aveva fatto shopping. Era una Hollywood che masticavi come una caramella, quella che vidi quel 1990. Una Hollywood, mi dicono, che ora non c’è più, ma che allora era qualcosa di pazzesco.
I pomeriggi nel campus si passavano, come detto, a fare sport. C’era tutto quello che si poteva immaginare. Oppure, non lontano c’era Venice, dove era facile incontrare Lou Ferrigno assieme a Franco Columbu gonfiarsi i muscoli sulla celebre Venice Beach Gym. Noi, a dire il vero, incontrammo anche un simpaticissimo Lorenzo Cherubini, il quale riconobbe tra di noi un amico bolognese allora campione italiano di tennis. Provammo a fare surf quel giorno, ma con risultati disastrosi, mentre Jovanotti… hehe… acquistava il cappellino dei Los Angeles Raiders utilizzato per l’album successivo.
In quei pomeriggi scoprii che gli americani e, soprattutto le americane, sanno giocare a calcio: lo sport più praticato al college, anche se poi quasi tutti scelgono di fare altro. Tra questi, Doug ci sapeva fare pure a tirare calci, forse per via del fatto che, allora, era alto solo 190 cm. Per fortuna, anche lui cambiò sport. In piena era internet, due decenni dopo, scoprii che Christie era un discreto professionista NBA e, tra le altre squadre, aveva giocato anche con i Lakers, che una mattina di quell’estate andammo a vedere in allenamento.
A Malibù, California, ci ero andato per studiare inglese, anche se praticamente a lezione non ci andai mai. Alla fine dell’estate il mio inglese era messo peggio di prima, ma avevo vissuto a mille all’ora, e quello valeva sicuramente di più dello spelling, anche se alla mia professoressa di inglese non fu facile spiegarlo.
In aereo, tra Los Angeles e Milano, mentre la mia testa era ancora sulle spiagge di Zuma, l’American Airlines offriva la possibilità di scegliere tra alcuni film del suo catalogo. Scelsi Il segreto del mio successo. Non ci capii quasi nulla, ma in quella pellicola recitava un amico che assieme al regista siciliano mi aveva iniettato voglia di Cinema, e di Stanley Kubrick.
A Malibù, California, ci ero andato per studiare inglese, anche se praticamente a lezione non ci andai mai.
Il mondo apprese solo nel 1998 della malattia che colpì Fox. Lui, che aveva attraversato il tempo per rimetterlo a posto, col morbo di Parkinson non c’entrava nulla. Lessi il suo libro autobiografico in una libreria a Bologna e ripensai a quell’estate del 1990.
Quel ricordo è per me l’autografo che non potrà farmi mai su quel libro.