Futuro interiore
Stavo passando un ottimo periodo. Strano, visto che mi ero appena rotto i coglioni. Il mio futuro interiore stava per avere una svolta. Lo so, in determinati contesti alcune parole non dovrei usarle (coglioni, futuro, svolta). Ma ormai, chi li riconosce più quei contesti? Defilandomi, indossavo una delle mie giacche migliori. A dire il vero, l’unica. Non mi erano mai piaciuti gli abiti eleganti, anche se dicevano che mi stessero alla perfezione. Mentre indossavo quella giacca blu, o dio solo sa di quale colore fosse (non sono daltonico, solo non riesco a distinguere un blu scuro da un nero. È che non ne ho il tempo), mi passava una strana idea per la mente. Mi specchiavo vicino alla porta d’ingresso. Non mi somigliavo più di tanto, ma mi riconoscevo lo stesso. Avevo una lista lunga di cose da fare ed ero determinato a farle. Prima le scale, poi la porta del garage poi quella della macchina.
Abbiamo visto il cielo piangerci addosso, perciò balliamo oggi che il sole è nostro. E che palle. Sempre la stessa cazzo di canzone. La trasmettevano almeno quattro volte l’ora. Ma chi diavolo la conosceva sta Baby K?!?? Per non parlare poi di Giusy Ferrero. Prodotto da talent scout da due soldi. Un talent discou(n)t! Sì, va bene, aveva una voce particolare. Ma operategliele quelle cazzo di adenoidi e non se ne parli più. Per giunta la strofa citata non fa nemmeno rima. Chi ti ha insegnato a fare rap, la tua amichetta scema su whatsapp? Ecco, in quel periodo amavo prendermela con le mode del momento. Non avrei mai pensato seriamente tutte queste cose brutte di una persona, figuriamoci di due. La lista di cose da fare era sempre poggiata lì, sul sedile destro della mia autovettura, anche se chiamarla autovettura mi sembra un eufemismo.
Macinavo chilometri. L’asfalto sfilava grigio e nero e nero e grigio. Sotto i miei occhi. Il braccio sinistro appoggiato sul finestrino aperto. Il vento mi entrava nei capelli, portati alla zuava per l’occasione. La linea tratteggiata bianca era sbiadita e più chiara e sbiadita. E continua. Sotto i miei occhi.
L’alba in Nicaragua appena diciottenne. L’oceano pacifico da un lato, l’oceano atlantico dall’altro. I fucili di mio nonno materno (avevo visto i fucili, non avevo mai visto mio nonno, morto due anni prima che io nascessi), babbo natale con le scarpe di mio padre quando avevo tre anni. Scoperto! L’omertà salva la fantasia di alcuni. Non avevo mai parlato molto. Quanto bastava. I baffi di mio nonno paterno. Lui l’ho conosciuto. Non parlava tanto. Forse per questo mi piaceva molto. Era morto quando avevo quasi sei anni.
Giungevo a destinazione dopo circa una mezz’ora. Nonostante tutti i finestrini abbassati, la lista era ancora lì, nella stessa posizione in cui l’avevo lasciata. Iniziavo a sudare freddo. La prima cosa da fare richiedeva una notevole pace interiore e non sapevo se fossi pronto. Mi serviva il me apotropaico che spesso mi aveva salvato la vita.
Il pranzo della domenica, i pomeriggi davanti alla tv. Scatto di Marco Pantani! La primavera del ciclismo italiano. L’eco in un particolare punto della stanza da letto dei miei fratelli più grandi. L’ombrellone con tutti i colori nella spiaggia libera, giallo e verde sul lido. Il mare mosso che a sei anni le onde ti sembravano giganti, come quelle nei film americani. Il sudore. Il sudore in ogni occasione. La finestra spalancata anche d’inverno. La prima sigaretta. La seconda prima sigaretta. La terza prima sigaretta. Il mucchio di cenere. Un cervello, un cuore, una bocca, un naso. Due occhi e tutto il resto.
La lista era appena cominciata