Welcome to India
Che poi io a casa mia, a Roma, ci stavo benissimo. Non avevo bisogno di andare a trovare me stessa, che so, in India. Avevo la mia vita, fatta di piccole cose. Piccole gioie, piccoli nervosismi, piccole emozioni.
Caffè, corsa per arrivare al lavoro, traffico, liti col capo, corsa per tornare a casa, piscina, coma, stato di morte apparente sul letto. Il tutto da ics anni (non si chiede mai l’età a una signorina. E nemmeno da quanto tempo lavora perché altrimenti risalireste pure all’età. Furbacchioni).
Insomma una piccola vita, fatta di piccole cose.
A un certo punto capita una cosa grande. Capita che il cuore ha iniziato a seguire un percorso tutto suo, impalpabile, indescrivibile. La piccola routine continua – eh, perché la routine nessuno la ferma – però c’era quella cosa grande che rendeva tutto più brillante. Che banale che sono, mi è capitato di pensare, ancora che credo che questa cosa qui possa cambiare tutto. Che possa veramente rimescolare le carte in gioco.
Eppure…
L’Amore è come la varicella, più tardi ti colpisce, più danni fa.
Eppure questa cosa qui, che chiameremo per comodità AMORE, con tutto maiuscolo e grassetto, ha di fatto trasformato di nuovo la mia vita in una tela bianca. Una tela da colorare con tutti i colori del mondo.
L’Amore è come la varicella, più tardi ti colpisce, più danni fa. Così la signorina in carriera, la signorina del “prima il lavoro”, inizia ad ammorbidirsi e a riconsiderare un po’ di priorità. Tipo che, sì, il lavoro è importante. Sì, alle riunioni si arriva carichi a pallettoni. Ma anche che la sera prima di una riunione si può rientrare a casa alle tre del mattino perché, complice il profumo della notte, ti sei soffermata un po’ troppo a guardare una testa piena di capelli neri che riposa proprio lì accanto a te. E a quel punto pazienza se alla riunione rimani un po’ in silenzio a pensare a quella testa, all’incavo di quella spalla che sembra proprio fatto per accoglierti nel più tenero degli abbracci.
La vita comunque è come l’Amore che è come la varicella. Fa un sacco di danni. Quindi può sempre succedere che quella testa piena di capelli neri un giorno ti dica una cosa così:
“Devo trasferirmi in India”
E tu lo sapevi che quel momento sarebbe arrivato, lo sapevi da sempre. Un po’ perché le cose belle non durano in eterno, un po’ perché sapevi bene che quella testa piena di capelli neri, con quegli occhi così grandi, non sarebbe rimasta confinata nel recinto di una piccola vita fatta di piccole cose. Ti disperi un po’, cerchi di fermare il tempo in tutti i modi. Decidi che non vuoi incrociare mai più quegli occhi, però non glielo dici perché hai una forza di volontà che manco un paramecio. Quindi continui a incrociare quegli occhi, ti costruisci un piccolo bagaglio di felicità, una scatola di ricordi da tenere in caldo per i momenti tristi, ben sapendo che ce ne saranno.
Poi gli occhi partono, vanno lontanissimo. Dall’altra parte del mondo. I tuoi piangono tutte le lacrime che l’oceano possa contenere. E inevitabilmente si arriva a un bivio.
Continuare una piccola vita che sarà inevitabilmente un po’ meno colorata o mollare tutto? Mollare il lavoro, la famiglia, gli amici, la piscina, i parchi, i negozi pieni di scarpe che aspettano solo di essere comprate e inseguire un paio d’occhi a cui è legato un sogno di felicità?
In queste circostanze è incredibile scoprire quante risorse esistono in noi. E può capitare che ci si renda conto che i limiti, i confini, i muri ce li imponiamo da soli. In realtà non esistono e se riesci a immaginarti un sogno, allora hai tutti gli strumenti per realizzarlo. Quindi vai dalla tua famiglia e gli dici che proprio quella mattina hai mandato a quel paese il tuo capo insieme a tutta l’azienda e, prima che loro possano inseguirti con una roncola per ricondurti a più miti consigli, butti tutto quello che ti serve in una, forse due, vabbè facciamo cinque, valigie (mica si possono lasciare delle Manolo Blanick a Roma, essù!) e percorri seimila chilometri. Seimila. Senza sapere esattamente cosa ti aspetta. Senza sapere proprio niente perché dell’India tu sai solo che, da qualche parte, bruciano i cadaveri sul Gange e che hanno una divinità a forma di elefante.
Poi gli occhi partono, vanno lontanissimo. I tuoi piangono tutte le lacrime che l’oceano possa contenere. E inevitabilmente si arriva a un bivio
L’unica cosa che sai, e che ti basta, è che fuori dall’aeroporto, tra una scimmia e un elefante, incrocerai di nuovo quegli occhi. E da quelli puoi ripartire.
Ma cosa succede quando scendi da un aereo e arrivi in India? Succede che devi fare una corsa pazzesca al controllo passaporti. In realtà tu sei agghindata come un albero di Natale perché, ovviamente, devi essere bellissima e non hai mica tanta voglia di correre. Solo che, inspiegabilmente, vieni travolta da un mucchio di indiani che corrono e allora, per non essere da meno, corri pure te. Col tuo bagaglio a mano che pesa quanto un colpo, i tuoi tacchi indiscutibilmente fuori luogo e quella stramaledetta sciarpetta che veramente non si capisce che te la sei portata a fare. “Welcome to India” dice un cartello.
Al controllo passaporti c’è una fila micidiale. Cerchi di riprendere fiato perché sei in debito di ossigeno da un po’ e sei pure sudata come un muflone, poiché nonostante l’aria condizionata si inizia a sentire un certo caldo. Togli la sciarpetta, ti levi il maglioncino e arriva finalmente il tuo turno.
“Hello”
“Namaste”
Ti guardano, ti fanno togliere gli occhiali, ti fanno rimettere gli occhiali e finalmente mettono il timbro di ingresso nel Paese sul passaporto. Rimetti tutto nella borsetta che ormai è un cestino della spazzatura, perché dentro ci sono cartacce che risalgono al mesozoico, e ti avvii a ritirare i bagagli.
Fai venti metri e ti senti chiamare “Madame, madame! Controllo passaporti!”.
Ma come? L’ho fatto ora!
Ti avvicini al signore che ti ha chiamato, che sta mollemente adagiato su una sedia, e cerchi di spiegare che tu hai fatto proprio ora il controllo e che col cavolo che ritiri fuori tutto. “Check madame”.
Poggi il bagaglio a mano, poggi la borsetta della malora, la sciarpetta cade per terra e il maglioncino scivola all’altezza del ginocchio. Tutto il superfluo che ti sei portata dall’Italia ti sta rapidamente sopraffacendo. Dai il passaporto, lui lo guarda e te lo ridà. Senza manco aprirlo.
“Ma non dovevi controllare?”
“Ho controllato“.
Sei sudata, emani un certo afrore di capra perché hai corso con addosso almeno una ventina di chili, stanca, ormai il trucco si è sciolto e di certo non sei un bello spettacolo. Esci fuori e vieni accolta dal Muro del Caldo. Ci saranno quaranta gradi ma tu ne percepisci cinquecento e sei convinta che la morte sia vicina. Però in quella folla colorata, vedi una manina che si muove nella tua direzione. E la riconosci subito.
Non senti più la stanchezza, il caldo non c’è più e non c’è più manco il maglioncino perché te lo sei perso. Però c’è lui, la tua metà migliore, la tua nuova vita e il tuo nuovo lungo viaggio.
E quindi, vi chiedo: vi va di viaggiare un po’ con me?