Adua: Racconti le storie che hai come meglio puoi
Ho letto Adua di Igiaba Scego, autrice e donna che stimo.
La storia narrata mi è piaciuta, mi ha regalato suggestioni positive, però l’ho trovata a tratti cedevole ad un facile esotismo di cui l’editoria italiana oggi è assetata. Adua racconta a capitoli alterni la storia dell’omonima ragazza e di suo padre. Generazioni a cavallo fra Africa e Italia, una partita a ping pong in cui con il tempo varia il significato che si dà alle proprie origini, cambia il peso degli eventi, la nostalgia da concreta si fa “immaginata” – cito Appadurai – ma non meno dolorosa. C’è un passato in cui chi beve shai poi “suda come un porco, ma lo vedo che dentro brilla di una luce tutta nuova”. E c’è quello stesso shai con aggiunta di addes che ad una sola generazione di distanza è diventato qualcosa che “rovina la linea. Ti fa venire la cellulite. Ti ammazza con la ritenzione idrica”. Come spesso accade, quindi, anche l’alimentazione assume connotazioni diverse, da piacere di cui godere le rare volte in cui abbonda, si fa diavolo da evitare, come accade nel sovra-nutrito Occidente. Altra immagine di ciò è il confronto fra chi al tempo era l’unico personaggio pingue nei dintorni ma oggi è soltanto un obeso fra gli obesi, perdendo così la sua peculiarità. E cambia il valore che la stessa protagonista dà ai soldi, con il passare del tempo -neanche troppo- che segna un passaggio importante e triste della sua vita: una remunerazione che inizialmente sembra abbondante, sembra destinarle una vita di lusso sfrenato, ma che poi si riduce nella certezza di un pugno di monete ed un avvenire che è meglio non guardare in faccia.
Adua racconta una storia amara, che fa riflettere, questo è indubbio. Ci sono però alcuni dettagli che mi hanno portata verso una perplessità che mi incute quasi spavento: è un azzardo ipotizzare che le cosiddette seconde generazioni, quelli che non vogliono mettere in secondo piano il loro essere stranieri ma neanche sbandierare la loro alterità, finiscano essi per primi per gonfiare ancora di più l’esotismo delle loro origini, quasi fosse un appiglio identitario in più, quasi per non farlo sfuggire via e trovarsi più dispersi? Lo chiedo ad Adua, lo chiedo a Igiaba Scego, lo chiedo a me in primis. Sono cresciuta in un ambiente in cui queste “seconde generazioni”, che oggi si tende a valorizzare, erano ancora il lato invisibile dell’Italia. E mi chiedo quanto il fatto di vivere questo passaggio dall’invisibilità alla presa in considerazione, a tratti fin troppo enfatica, non porti chi lo vive sulla propria pelle a guardarsi attraverso una lente che, se da un lato aiuta il percorso di definizione di sé, dall’altro rischia di distorcere la propria immagine forzandola a rientrare in una sagoma disegnata da altri.
Il mio azzardo è fondato sulla lettura del romanzo dell’autrice italo-somala ma implica me stessa, in quanto italo-libanese che, esattamente come la Scego, è nata a Roma e si è interessata soltanto crescendo a tematiche inerenti le seconde generazioni, la migrazione e quant’altro.
La giovane Adua passa ore a parlare con la statua dell’elefantino alla Minerva, a Roma. Unico richiamo africaneggiante in una Roma troppo legata all’Impero Romano? E riferendosi agli animali che aveva in Africa parla di “caprette adorate”. “Pensavo che la vita fosse racchiusa nel belato ilare di una capretta”, leggiamo. E ancora: “Dopo quella pioggia torrenziale sarebbe spuntato il sole anche nel nostro cuore”. Nessun dubbio sulla presenza di capre nella quotidianità rurale della Somalia, d’altronde di capre se ne trovano in un qualsiasi paese anche in Italia, ma è il campanilismo che la loro descrizione sottintende che mi lascia scettica. Ostentazione di simbolismo naif ritenuto adatto ad una ragazza sognatrice? Tentativo di riprodurre pensieri di un’infanzia incontaminata? Metafora del bisogno effettivo di cercare in una realtà aliena almeno un referente che riporti alle proprie origini? Ci penso e mi chiedo come narrerei io il poco Libano che ho conosciuto, caprette comprese. Ma la risposta non ha spazio in questo articolo.
Tuttavia, in “Adua” ci sono anche immagini che chiamano in gioco una sensibilità profonda. Ad esempio, quella delle donne che con l’avvento del cinema a Magalo finalmente sognano un’ora al giorno, ma non si concedono mai la visione dell’intero film perché sono poi richiamate a casa da mille doveri. C’è l’ingenua Adua che sente parlare di film ma non sa cosa sia un film e, quando va a vederne uno, si sorprende di osservare un tramonto che non sia accompagnato dal richiamo del muezzin. Un tramonto “blasfemo”, “di plastica”, lo definisce, “partorito dal figlio di Satana”. E poi ci sono le osservazioni altrettanto naif della ragazza secondo cui i bianchi cambiano mille colori a seconda della salute, dell’umore, mentre i neri sono sempre e soltanto “marroncini”. Pensieri che fanno leva sulla tenerezza, che però è un campo minato perché richiede un uso controllato: dell’ingenuità dei propri personaggi nessuno scrittore dovrebbe abusare.
Bello è l’inquadramento storico che Igiaba Scego colloca come sfondo alla sua narrazione, le comparsate di Maria Uva e dei suoi canti. Evocativo lo scontro fra amore disinteressato e fedeltà ai propri ideali politici, che porterà ad un dissidio fra due personaggi. Commovente quella figlia maldestra e goffa che vorrebbe baciare il padre o stringergli la mano ma finisce a terra ruzzoloni nel tentativo di raggiungerlo. Crudelmente vera l’immagine scandita quasi secondo il ritmo di una marcia militare: “i soldati mischiavano le loro erezioni ad antiche lezioni di catechismo imparate a memoria da bambini”. Malinconico quel padre che “ubbidì. Ormai non sapeva fare altro“. E si riflette: la sottomissione, la negazione di sé, è qualcosa che si impara col tempo, che si diluisce nell’abnegazione quotidiana? Bella la presa di distanza dall’atto troppo occidentale di regalare fiori, le evocazioni magiche e le visioni, la citazione quasi autoreferenziale scelta dalla Scego per inserirla nel romanzo in maniera quasi casuale: “Racconti le storie che hai come meglio puoi”. Forse il punto di partenza da tenere presente per calarsi in “Adua” è proprio questo: Igiaba Scego vuole raccontare il suo passato, il passato che avrebbe forse voluto vivere più a fondo. Cerca di assolvere il suo compito di seconda generazione, si impegna, fa del suo meglio, ma i vuoti dovuti al “non-vissuto” restano difficili da colmare. In questo romanzo, Igiaba Scego lascia emergere la sua “italianità” – mi si passi il termine – anche mentre tenta la descrizione delle sue origini somale: sfoggia con orgoglio la ricostruzione artificiale -benché ben documentata!- di un passato di cui non ha memoria diretta, di cui ha osservato gli strascichi ed ascoltato i racconti. Come ogni ibrido, e qui includo con orgoglio anche me stessa, tenta il connubio goffo fra tradizione e traduzione (intesa come trasposizione della propria cultura in un altro contesto, compromesso culturale fra quella di origine e quella “di arrivo”), due opposti di un sistema binario teorizzato dal sociologo Stuart Mill. E goffa mi sento anche io, ogni qual volta tento di arrivare allo stesso connubio.
Per concludere, il finale del libro di Igiaba Scego -che non svelerò- mi ha lasciato interdetta per il suo calcato valore simbolico, retorico, quasi metanarrativo. Trovo difficile dire che Adua riesca a muovere passi in avanti nel processo di “normalizzazione” delle seconde generazioni – che resta senz’altro in equilibrio difficile, forse impossibile da raggiungere, tentando di dare il giusto peso a spontaneità e pensiero socio-politico; ma in fondo cosa vuol dire “normalizzare”?! – .
Non si tenta la rivoluzione, in Adua, non si cerca di superare la scissione interna delle G2, ma di renderla nota ai più. Penso che sia Adua un romanzo per le masse, e non in senso spregiativo. Penso che sia un romanzo che rappresenta un primo passo da fare nei confronti dell’altro, un primo cenno di apertura, soprattutto ai giorni d’oggi. Perché Adua è straniera, sì, ma è anche una di noi. Anche lei si sente “altro” rispetto ai nuovi arrivati, i migranti da Lampedusa in poi. Una voce a metà, quella di Adua: una prima testimonianza da ascoltare. Un primo passo, appunto. Che ancora non si schioda da quella che i critici amano chiamare letteratura migrante, che trovano rilevante per il fatto stesso di portare alla luce un inquadramento diverso della realtà, a prescindere dalla maniera in cui lo si fa. Capitolo nuovo, sì, ma in un libro già scritto. Il secondo passo, ovviamente, sarà capire che non tutti i migranti parlano con l’unica statua esotica che trovano nella città dove approdano, che chi viene da fuori non viene per forza da un pascolo di caprette, che forse di caprette ne sanno di più i nostri padani che non chi magari in patria si occupava di commercio, di ingegneria, o chi semplicemente ancora studiava. Ma forse per conoscere storie come queste ci basterebbe, passato un “primo step letterario”, uscire nelle strade delle nostre città e lasciar parlare direttamente chi queste esperienze le ha vissute una ciuffata di giorni fa.