Il leone e la scrittura
Aaron Paul è uno dei protagonisti dell’ultimo bellissimo film di Gabriele Muccino, Padri e Figlie. Non vi racconterò il film, né ve ne faccio una recensione, mi limiterò a dirvi che a parer del sottoscritto, è davvero un gran film. Il più mucciniano, forse, tra gli ultimi film del regista romano, ma forse anche la più matura tra le sue opere, la più intensamente e non banalmente drammatica. Muccino ama raccontare le emozioni, in ogni sfaccettatura, vive di emozioni, le scandaglia, sono il suo marchio di fabbrica. Lo fa, con la consueta maestria, ma con ancor più profondità di introspezione dentro le piaghe del dolore, anche in Padri e Figlie, dove peraltro si giova della straordinaria bravura del cast di attori protagonisti del film, primo tra tutti un magnifico Russell Crowe. La narrazione, che si dipana su due diverse fasi temporali, racconta di affetti, di tenerezza, di perdite e di ferite. E poi dell’Amore come unica possibile fonte di salvezza.
Tuttavia, io oggi voglio parlarvi di un altro aspetto che emerge in una parte del film. Anche questo, in fondo, ha a che fare con un modo che noi umani abbiamo per tentare, se non proprio di salvarci o di essere compiutamente felici, quanto meno di realizzare una parte della nostra anima: darle voce. Raccontarla, raccontarci. Tirar fuori quello che sta sommerso in noi stessi, tra dentro e fuori, come amo dire io e come non a caso si chiama questa mia rubrica.
un modo che noi umani abbiamo per tentare, se non proprio di salvarci o di essere compiutamente felici, quanto meno di realizzare una parte della nostra anima: darle voce
Lo spunto presente nel film, poi, fa anche un passo in più, si spinge oltre, ed è un passo, immagino, che accomuna tutti quelli che amano scrivere e che infatti mi è piaciuto molto: si pone il rapporto della scrittura col senso stesso del nostro transito in questa vita. La necessità che abbiamo, ciascuno a modo proprio, di lasciare un segno tangibile di sé. Qualcosa che blocchi la nostra essenza profonda e che lasci una traccia di quello che saremo stati. Aaron, il cui personaggio nel film si chiama Cameron, si innamora della protagonista femminile, la figlia di un grande scrittore. Forse se ne innamora anche per questo, perché è colei cui era sostanzialmente dedicato il libro che ha amato di più nella sua vita, quello che l’ha segnato e accompagnato nella sua formazione personale e intellettuale. Quello che gli ha fatto capire di avere il desiderio e la necessità di scrivere. Non per vanità, non per il successo, ma, appunto, per dar forma compiuta a ciò che lui sente di essere e che ha voglia di raccontare attraverso la parola scritta, affinché ne rimanga una testimonianza imperitura.
Quando i due ragazzi si conoscono, lui le racconta un episodio che gli accadde in Kenya, qualche anno prima. Improvvisamente, si ritrova faccia a faccia, a pochi metri, con un leone. Si guardano, lui capisce di non avere alcuna via di fuga. È in balia del leone, della sua eventuale fame, di lì a qualche istante potrebbe finire sbranato e sul film della sua vita scorrerebbero inesorabili i titoli di coda. Invece il leone, dopo qualche attimo di osservazione, gli passa accanto, lo ignora e se ne va. E Aaron capisce con una intensa lucidità mai avuta prima, che lui deve scrivere. Raccontare di sé, comporre un mosaico di quello che è, attraverso tante piccole tessere fatte di parole. Perché può accadere in qualsiasi momento, senza preavviso, di trovarsi al cospetto di un leone, metaforicamente, e non sempre il terribile felino sarà sazio.
E allora mi chiedo e vi chiedo: voi, amici e colleghi di Fus, lettori, scrittori di fatto o solo potenziali, voi che scrivete a volte veri e propri capolavori, magari sulla vostra bacheca di Facebook o semplicemente sul vostro block notes, voi che scrivete pensieri in libertà mentre siete in treno o seduti al cesso e che non farete leggere mai a nessuno, per pudore o perché pensate che non valgano nulla; oppure voi, che non vedete l’ora di raccogliere tutte le pagine che avete scritto qua e là e trovare un editore che si convinca, come lo siete voi con apprezzabile dose di autostima, di trovarsi di fronte a un nuovo Pirandello o ad un Camilleri più giovane e meno fumatore; o ancora, voi, amici miei, che avete già pubblicato dei libri, anche di un certo e riconosciuto valore letterario, e proprio per questo sapete quanto sia difficile sfondare, sapete che quasi certamente non avrete mai né fama né soldi, eppure avete ancora e sempre quella smania che vi porta a perder sonno, a togliere spazio e tempo ad altre attività, anche al divertimento o agli affetti: voi, perché lo fate? Perché scrivete? Avete paura anche voi del vostro leone? O magari perché vi sembra che il leone due zampate tremende ve le abbia già assestate e scrivendo sentite di poterne ignorare i graffi profondi sulla pelle?
vi sembra che il leone due zampate tremende ve le abbia già assestate e scrivendo sentite di poterne ignorare i graffi profondi sulla pelle?
Cosa vi spinge a mettere un pezzo della vostra anima e della vostra mente dentro un testo, o a metterci riflessioni, esperienze, storie inventate che vi girano in testa, chissà perché, da tanto tempo? Perché avete questa irresistibile voglia di raccontare di vostro padre, di quella volta che avete pianto vedendo piangere vostra madre, del vostro primo bacio, di quella ragazza o ragazzo con cui poteva essere amore e invece alla fine fu un calesse?
Se un leone decidesse che siete voi il suo prossimo imminente pasto, quante e quali parole non avete ancora scritto e avreste voluto invece avere già scritto e sigillato da qualche parte, al sicuro, al riparo dalla polvere del tempo e dell’oblio?
Io non lo so, davvero. Credo però che la mia immediata empatia verso il personaggio interpretato da Aaron Paul qualcosa vorrà pur dire. Non sono mai stato in Kenya, giuro, e non ho mai temuto di finire in pasto ad un leone. Però quel bisogno di narrazione e di scrittura, evidentemente, ce l’ho anch’io, che pure conto di vivere fino al Duemiladuecento o magari, perché no, fino al Tremila…