La stanza che si muove da sola
“Cammino ascensionale”, ed io che leggo “cammino ascensoriale” e penso che come termine sia più idoneo alla contemporaneità meccanica e senza dio. Qui eravamo rimasti nell’articolo in cui riprendevo l’aggettivo di Magrelli e lo modificavo a mio piacimento.
Era qui che avrei voluto collegare il curioso approfondimento sulle ascensori, ma sarebbe stato fuori luogo. Le ascensori meritano un articolo a sé.
Le ascensori, per le generazioni per cui l’Ascensione-per-antonomasia dei nostri genitori è solo confusa reminiscenza di un catechismo obbligato, sono simbolo ideale per rappresentare le ascensioni. Quelle di ogni giorno, quelle ai piani alti, quelle su per le scale degli ospedali o le rampe o per gli scalini semoventi delle palestre o quelle dei pacchetti sollevati dalle gru.
Un tempo però le ascensori non erano così scontate, non per tutti.
“Per evitare la fatica di salire e scendere, c’è anche una stanzetta che può contenere sei o sette persone e che tramite un sistema di ruote può salire fino al tetto. In camera c’è un “informatore misterioso”: quando si preme [il pulsante], in portineria si sa quale stanza ha chiamato. Ce ne è uno che serve a trasmettere messaggi.”
“Se la gente è pigra e non ha voglia di salire a piedi gli oltre 480 gradini, a fianco della scala c’è una porta oltre la quale si trova una stanza che si muove da sola e che può contenere cinque persone. All’interno c’è una leva, se la si abbassa, la stanza sale da sola, se la si alza, invece, scende. Si ferma da sola al piano desiderato.”
Una stanza che si muove da sola: ecco cosa è l’ascensore per chi non la conosce! Ciechi noi che non l’abbiamo mai vista così! Stolti noi, abituati a darla per scontata, a non interrogarci sulla sua essenza, a non cercare di inquadrarla altrimenti, nella nostra mente! Ed ecco l’eco di telefoni, citofoni, ecco i primi marchingegni made in Europe comparire sotto lo sguardo indagatore dei cinesi!
Queste due citazioni sono riportate nel libro “L’Oceano in un guscio d’ostrica”, Theoria edizioni, a cura di Maria Rita Masci, che raccoglie i racconti perplessi e stupiti dei primi viaggiatori cinesi nell’Europa dell’Ottocento.
Un libro che trasmette al lettore la meraviglia, che incuriosisce, che ricrea. Nel senso che plasma da capo i significanti, trova maniere alternative di collegarli ai loro significati.
Come un Lettere Persiane, con la differenza che Montesquieu se le è inventate di sana pianta per analizzare i suoi mentre questi cinesi erano mossi da profonda e sincera perplessità.
Esempio di ciò è la simpatica maniera che usano per descrivere i preservativi, oggetto obsoleto:
“Ho sentito dire che in Francia e in Inghilterra vendono un vestito per il pene, ma non so di cosa sia fatto. Secondo quanto si dice, quando si passa una notte con una prostituta, si mette questa cosa sulla testa del longyang (genitale dragone), come un cappello, per evitare di prendersi la malattia.
[…] La Francia chiama questa cosa “il vestito inglese”, l’Inghilterra, “la lettera francese”. Entrambi rifiutano la responsabilità della sua invenzione.”
Ma anche la occidentalissima fissa per l’igiene, come la descrivono loro, e gli strani passatempi in voga all’epoca sono analizzati nel dettaglio.
“Prima si tuffano in una piscina calda e nuotano, poi escono e si mettono in piedi sotto una “canna che spruzza acqua” (doccia). Sembra come se si mettessero sotto la pioggia. Girano su se stessi per farsi irrorare dall’acqua spruzzata da una tavola. Questo serve a combattere il freddo. A questo punto si mettono un panno sulle spalle ed entrano velocemente dentro un “armadio” [bagno turco] situato in una stanza calda.”
Al che uno si immagina un uomo particolarmente goffo, un alieno che viaggia in stanze semoventi, un poverino che si riscalda in misteriosi armadi bollenti. È divertente immaginare i propri antenati così come li descrivono i viaggiatori cinesi. Appassionante come riescono a ridicolizzarli fino al punto da farci tenerezza.
Leggendo “L’Oceano in un guscio d’ostrica” ci si sofferma anche a riflettere su quanto il mondo, all’epoca, dovesse risultare enorme.
“Il viaggio è durato meno di nove ore, una rapidità molto confortevole, non c’è stato neppure il tempo di mangiare.”
Oggi, invece, un viaggio di nove ore ci pare estenuante, straziante, insopportabile, e ci lamentiamo di jet lag, e portiamo mille provviste, riviste, dispositivi elettronici per alleviare la noia.
Forse basterebbe fermarsi, osservare, appuntare, meravigliarsi, stupirsi. Forse attraverso gli occhi di questi viaggiatori torneremmo ad una visione creativa della realtà, nel senso etimologico di “creare” la realtà che si ha attorno e non apprenderla passivamente, a memoria, per induzione. Metterla in dubbio, metterla in ridicolo, capovolgerla e vedere – come una scatola misteriosa che non ci appartiene – cosa ne esce fuori.