Quella volta in cui ho visto Fabrizio De André
Quando ho visto Fabrizio De André per la prima volta ero nella pancia di mia mamma.
Ma io me lo ricordo. Ché quando incontri l’amore non puoi di certo ignorarlo.
Quando l’ho visto per l’ultima volta ero seduta a mangiare, dopo una mattinata a scuola, e veniva data la notizia della sua morte.
Io, però, Fabrizio l’ho visto un sacco di altre volte, poi.
L’ho visto nei lunghi pomeriggi di studio quando le parole delle sue canzoni mi facevano compagnia e stimolavano riflessioni, rabbia, tristezza e voglia di conoscenza. L’ho visto nei lunghi viaggi nei caldi pomeriggi d’estate, in macchina, con la vita e il mondo a scorrere fuori dal finestrino. L’ho visto nei ricordi di una me bambina che chiedeva ai genitori di ascoltare insistentemente “quella della camicia bianca” (Quello che non ho, 1981) e ballava con gli occhi chiusi. L’ho visto durante tutte le tappe fondamentali della mia vita, a volte ingombrante, a volte presenza silenziosa.
Era con me quando camminavo per le stradine strette e buie di Genova. Era con me quando prendevo un treno per andarmene da un amore che non esisteva più. Era con me quando mi sentivo persa e guardavo il soffitto della mia camera senza sapere che direzione darmi. Lo era anche quando ero felice, col mondo nelle mie mani, e con un futuro ancora tutto da costruire. Era con me a Rimini, era con me in Sardegna, era con me a Napoli
Era con me quando non ritenevo possibile che un certo accostamento di parole potesse ribaltarmi lo stomaco in quel modo e che ci fosse stato qualcuno in grado di pensarlo. Era con me nell’incredulità verso la cattiveria, le ingiustizie, i torti, la vita. Era con me nella comprensione della potenza dell’amore e dei sentimenti e dell’ineluttabilità che li contraddistingue. Era con me a Rimini, era con me in Sardegna, era con me a Napoli, era con me. Ed è con me.
Io non lo so perché amo De André, ma non penso nemmeno si possa spiegare l’amore.
Fabrizio De André non ha bisogno di presentazioni per cui non starò a raccontarvi chi è perché alla fine nemmeno io so chi sia. Lui era un uomo, un carcerato, una puttana, un indiano d’America, un rom, un alcolizzato, uno senza speranza, un rivoluzionario, un chimico, un predicatore, un innamorato, uno col cuore spezzato, un cinico, un senza patria. Era Gesù, era Maria, era Buddha ed era Maometto. Era un padre ma anche un figlio. Era uno sconosciuto, un vagabondo, un poeta, un anarchico, un bombarolo, un malato di cuore. Uno sconosciuto conosciuto con cui ho parlato nella mia testa centinaia di volte. Non ha importanza non aver ricevuto risposte, mi sono bastate le sue canzoni.