Questa è Lampedusa: l’ombelico del mondo
C’è vento in quota, l’aereo sobbalza. La donna accanto a me è nervosa. Con le sue lunghe unghie rosse artiglia il sedile. Mi disturba con il suo atteggiamento snob che scompare in un gemito di paura. Guardo dal finestrino : Lampedusa “la bianca” è sotto di noi. Dannazione: la pista è davvero corta. L’aereo vira, tenta l’atterraggio, e si rialza. Lei, continua a sussultare. Vorrei dirle di smetterla. Inizio a temere anche io. Un’altra virata e finalmente tocchiamo terra.
Lampedusa è ultimo baluardo di terra italiana nel bel mezzo del canale di Sicilia. Mi sento in terra di frontiera. Recupero il mio prezioso bagaglio. L’attrezzatura foto sub è tutto quello che ho in una valigia logora, insieme a due stracci da indossare.
Ironia della sorte: una mostra fotografica mi da il benvenuto. Bianco e nero. Facce. Occhi lucidi troppo spaventati per piangere. Mani che chiedono con dignità. Freddo, disperazione, smarrimento. È la storia recente di Lampedusa ad accogliermi. Messa in bella mostra perché tutti devono vedere. Tutti devono sapere. Ho la pelle d’oca.
Guardo e riguardo quelle fotografie. È come se facessi parte di quei momenti. Non vedo rabbia e violenza. Vedo solo carità e amore, nel gesto di un Lampedusano che offre una tazza di tè caldo a chi ha troppo freddo nell’ anima per essere riconoscente.
Sono imbambolata e disorientata. Guardare certe cose in televisione è come apprendere della morte: non è mai così dolorosa finché non ti tocca da vicino.
Ho freddo, devo uscire da questa stanza, ho bisogno del sole. E il sole d’estate a Lampedusa non manca mai.
Affitto un motorino e vado spedita in via Roma. Venti km² di superficie, non ci si può perdere! Seduta al Bar dell’Amicizia, mi gusto una granita al caffè. I turisti sono ancora pochi. Non tardo a scoprire la famosa accoglienza dei Lampedusani, contenti di vedere facce nuove dal “continente”. Ascolto la gente parlare nel dialetto locale. Osservo la loro gestualità e il loro essere orgogliosi di appartenere a una terra messa sotto pressione, da eventi socio-politici indipendenti dalla loro volontà.
Terra brulla, arsa dal sole, che si stacca violenta da un mare blu dipinto di blu, fregiato dal turchese caraibico delle lagune. Questa è Lampedusa. La macchia mediterranea si sviluppa bassa sul tavolato roccioso, difficile credere che in tempi antichi, l’isola fosse ricoperta da boschi. Piante di capperi selvatici crescono ovunque. Rigogliosi fichi d’india, carichi di succulenti frutti maturi costeggiano la strada. Nell’aria il profumo dell’origano selvatico e del rosmarino è intenso.
Al porto vecchio, i gozzi di legno sono in rada con la prua verso l’ingresso del bacino. Oggi il forte vento di scirocco mi costringerà a terra.
Ho sempre amato i porti di mare. Mi piace l’idea di gente e cose che vanno e vengono. E qui cose e persone vanno e vengono come vogliono: in contromano, senza casco. Per un attimo assaporo anch’io l’anarchia. Ma l’anarchia è inebriante solo quando non ci vivi dentro, mi fa notare “qualcuno” che mi accompagna nel mio peregrinare.
“A Lampedusa c’è tutto e manca tutto” mi dice il mio Virgilio siciliano. “Mancano i soldi, se la stagione estiva non parte siamo rovinati. La gente non viene, ha paura”. Lo guardo con il viso un po’ imbronciato e lui gentilmente mi offre un piatto di pasta al sugo e mi sussurra: “ perché sei qui?”. Lo so perché sono qui. Per una volta vorrei che le mie fotografie servissero a qualcosa in più. Vorrei che la gente s’innamorasse di Lampedusa guardando le mie foto, ma non oso dirglielo. Trangugio un sorso di vino e la voce mi muore in gola.
L’indomani il vento è calato. Al porto nuovo, Scuba Libre toglie l’ormeggio e mette la prua verso il mare aperto.
Cullata dal beccheggio guardo le onde che frangono dolcemente contro la scogliera ferita dall’erosione. Il panorama è vario e intrigante. Grotte e spacche si susseguono interrotte solo da qualche caletta, raggiungibile esclusivamente via mare. Chissà cosa mi riserverà la mia prima immersione. Rotta verso i fondali di Taccio Vecchio.
“Scuba Libre” getta l’ancora su un basso fondale di sabbia bianca, il vento è quasi svanito, l’aria calda invita a fare un tuffo rinfrescante.
In un attimo siamo in acqua, un costone di roccia si prolunga dalla costa verso il mare aperto per circa 50m.
Chiazze di posidonia sono ravvivate dagli scari, mi avvicino per qualche scatto. Due piccoli occhi circolari che sporgono dalla sabbia, catturano la mia attenzione. Con una mano, Nicola (la mia guida) spolvera la creatura. Mimetizzata, una grossa torpedine (Torpedo marmorata) appare poco a poco. Spaventata spicca il volo sull’arenile per posarsi poco più in là.
A circa 8m di profondità, il basamento roccioso somiglia ad un grande scalino: il fondo cade oltre i 20m formando una parete in cui si apre un ampio tunnel passante lungo circa 50m.
C’è un’entrata a 13m , ma è piuttosto stretta.
Un’altra, più ampia, si apre a circa 26m, sviluppandosi in diagonale all’interno della caduta. Decidiamo di entrare dall’ingresso posto più in profondità. Ai nostri occhi si rivela una cattedrale: la volta è completamente ricoperta di spugne e corallo rosa tipico di queste acque. Diverse cicale di mare (Scyllarides latus) sembrano incastonate a mo di gemme sulle pareti. I raggi di luce che filtrano da un camino centrale, creano un’atmosfera surreale.
Ad un tratto uno strano rumore, come un ronzio. Dal nulla compare uno sciame di pesci, fitto, compatto, che entra nella cavità.
E’ un banco di pesci coniglio (Siganus luridus).
L’azione si svolge rapidamente: devo scattare senza pensare troppo. Non posso lasciarmi sfuggire quest’occasione. Chiara testimonianza della tropicalizzazione del mare nostrum da parte di specie alloctone, penetrate dal Mar Rosso attraverso il Canale di Suez. Anche i pesci migrano!
Proseguiamo l’immersione nel tunnel sino ad uscire in fila indiana, dalla stretta apertura che riporta sin quasi alla superficie. Trascorreremo il tempo della sosta di sicurezza perlustrando il fondale sabbioso. Non è necessario cercare nulla, con un po’ di fortuna tutto si palesa da sé, uno splendido guscio di Tonna galea giace sulla sabbia, ma purtroppo è vuoto.
Risaliti in barca, lo stomaco si spalanca al profumo di basilico e pomodoro che condiscono generosamente gli spaghetti, preparati dal cuoco di bordo. Quanto adoro il dopo immersione italiano! Con la pelle che sa di sale e di sole, e la pancia piena mi sento in pace con il mondo. Nicola, si avvicina e mi dice: “ a Lampione ci sono gli squali” . Lo guardo. Senza esitazione rispondo: “andiamo”, ma questa è un’altra storia che varrà la pena raccontare.