Questo non è un pezzo sull’11 settembre
Wake up, sweetheart. Something’s going on.
Erano le nove di mattina, quella mattina, a Los Angeles. Il cielo limpido come sempre. Io pronta a vivermi gli ultimi giorni prima di rientrare in Italia. Apro gli occhi al suo della voce di E., la mia seconda mamma. E tutto cambia. Davanti alla tv. Cambiano i miei diciotto anni. Cambia la mia mente. Cambiano i miei sentimenti. Cambiano le mie paure. Cambia il mio rientro in Italia. Cambia la mia quinta liceo. Cambia il mio rapporto con gli Stati Uniti. Cambia, irrimediabilmente, il mio modo di guardare al mondo e all’altro. Cambio io.
Erano le nove di mattina, quella mattina, a Los Angeles. Ed era l’11 settembre 2001.
Mi alzo, allora, mi infilo le infradito. Scendo di sotto. Prendo il latte. Prendo i cereali. E raccolgo le mie gambe sul divano. E guardo. Le torri erano già crollate. Magia del fuso orario. E io guardo senza capire. Cos’è? Com’è possibile? L’hanno fatto davvero? On porpuse? Chiedevo.
Decido, allora, di chiamare casa. Forse si stanno preoccupando, mi dico. Anche se sono sulla costa opposta. Chiamo. Ma non c’è linea. Solo dopo qualche ora riesco a sentire, a quasi novemila chilometri di distanza, la voce di mia mamma strozzata dal pianto. I suoi due figli – c’era anche mio fratello, sì – stavano bene. Non dimenticherò mai il suo sollievo.
Sono tante le cose che non dimenticherò mai e che porterò sempre con me.
La città vuota. L’assenza di aerei nel cielo. Il silenzio innaturale. Le bandiere fuori da ogni casa. Più del solito. L’insicurezza, per la prima volta nella mia vita. Gli sguardi smarriti. La gentilezza. Lo spaesamento. La fine dell’infanzia, definitivamente e non solo anagraficamente. Le immagini sui giornali. Le immagini in tv. United we stand. Così dicevano tutti. Chissà, se poi lo pensavano, credevano e speravano davvero. Oltre la retorica, dico.
Mi stavano insegnando ad avere paura del diverso?
Ma questo non è un pezzo sull’11 settembre. Lo è sull’11 settembre che in un battito di ciglia è diventato il 17 settembre. Questo non è un pezzo sull’11 settembre ma su di me che il 17 ho preso l’aereo per tornare a casa e sul bagaglio a mano che non ho potuto portare. Sul caos di un aeroporto appena riaperto al quale si poteva accedere solo con una carta d’imbarco e solo con i mezzi pubblici. Ai controlli che ci hanno denudati. Alle attese che ci hanno riempito d’ansia. Alle persone in fila ai banchi che chiedevano solo di poter ritornare nei propri paesi. Alle spinte e alle urla. Ai ritardi che si accumulavano. Questo non è un pezzo sull’11 settembre ma su di me che guardavo i passeggeri seduti intorno a me nell’aereo. Su di me che guardavo come erano vestiti e mi scoprivo piena di pregiudizi. Li avevo sempre avuti? Erano dettati dalla paura? Mi stavano insegnando ad avere paura del diverso? Ma chi era il diverso?
Di solito gli attentati distruggono. L’11 settembre ha costruito barriere.
Questo è un pezzo sul 17 settembre quando dopo l’11 settembre 2001 sono tornata a casa e ho tentato di togliermi un po’ di polvere. A volte, quando guardo le immagini che quattordici anni dopo trasmettono i telegiornali, penso che nessuno di noi sia riuscito a ripulirsi del tutto. A volte, credo, che quello fu più di un semplice attentato alla vita. Lo è stato all’esistenza, alla fiducia, all’amore, all’empatia, alla condivisione. Lo è stato alla capacità e alla voglia di crederci uguali.
Di solito gli attentati distruggono. L’11 settembre ha costruito barriere.
Questo non è un pezzo sull’11 settembre ma è un pezzo sul 17 settembre quando al sicuro nel mio Paese ho fatto finta di niente. Ho cominciato la scuola e mi sono diplomata.