La fortuna aiuta gli audaci
La fortuna aiuta gli audaci. In altri termini, la spregiudicatezza paga. Il motto è risalente, tanto da potersene rintracciare l’originale latino: audentes fortuna iuvat, a quando Virgilio canta di Turno che esorta i suoi uomini ad attaccare Enea.
Quasi fosse un brocardo, a presidio della giustezza dell’esser audace, il motto è ripreso anche da Gabriele D’Annunzio, col suo memento audere semper – ricorda di osare sempre – così caro negli ambienti dell’estrema destra e archetipo tanto dell’eroe forte e senza paura, sfrontato e coraggioso, come dell’uomo villoso e profumatissimo che non deve chiedere mai.
Ma solo, evidentemente, ottenere direttamente, da buon audace.
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Già, ma chi è l’audace? Più facile forse dire chi non lo è. Non lo è certamente il timido, il prudente, il timoroso. Non lo è del pari, forse, l’onesto, il rispettoso delle leggi e delle regole; almeno, non certo coloro che ne sono pedanti osservatori ed esecutori, potendosi ammettere, diversamente, un connotato d’audacia per chi della legge si fa interprete a proprio vantaggio. Perché se è vero che la legge si applica ai nemici, è parimenti vero che per gli amici essa s’intepreta, in quanto il potere logora, ma solo chi non ce l’ha.
Ci sarebbe da domandarsi perché la cultura romana premia questa sorta di bullismo civico vestendolo con l’abito lindo e scaltro del guappo, la casacca ben stirata e inamidata del furbetto, la divisa pregna d’incenso del levantino. Forse in quanto non propriamente di fortuna si tratta, ma di selezione naturale? Certamente è insita nell’audacia la tendenza all’altrui prevaricazione; una sorta di prepotenza benigna, non ancora mafiosa – seppur quasi – ma che permette all’audace di emergere a discapito d’altri, e talora persino di sopravvivergli.
Chi non potrebbe asserire più o meno convintamente che il sopravvissuto, in generale, è in fondo in fondo un audace, oltre che un fortunato? Chi sia scampato ai campi di concentramento, chi sia sfuggito alla morte nelle tragiche traversate del Mediterraneo, chi sia giunto in fondo a qualcosa quando gli altri non ce l’hanno fatta non va dato solo per fortunato. E’ arrivato in fondo, e respira ancora, anche perché ha saputo occupare un posto migliore, ha bevuto un sorso in più d’acqua, ha approfittato a proprio vantaggio di un attimo di distrazione di chi lo doveva controllare, ha messo a buon frutto il proprio talento, o il capitale sociale, ha pagato i debiti solo quando costretto, evadendoli ogni qual volta gli sia o sia stato possibile.
E’ un audace, in sostanza. E la fortuna l’aiuta. Così lo si premia, nella cultura romana come in quella odierna. E’ una cifra culturale che non riusciamo a scrollarci di dosso, un marchio storico, timbrato dal tempo, controfirmato dal destino. Un campo ingombro zeppo d’equivoci, i cui figli sono il bullismo adolescenziale, la prepotenza giovanile, il mobbing adulto, l’evasione fiscale senile; e forse finanche la mafia, col suo metodo mafioso.
Perché in Italia, come già presso i romani, in fondo l’onesto non è che uno sfigato, e notoriamente solo lo sfigato paga. E chi paga, non solo economicamente, è destinato prima o poi a soccombere. In una sorta d’inversione perversa delle moralità cui informarsi, il nostro popolo pare ispirarsi da tempi atavici a stature mediocri, spesso anche nell’aspetto fisico, ed è da sempre ammiratore degli scaltri, dei furbi, dei filibustieri, di chiunque dia l’impressione d’aver ottenuto ben più di quanto non meriti, di aver spuntato l’ottimo voto sapendone pochissimo ed avendo studiato ancora meno, di aver guadagnato tanto lavorando poco e dando a tutti l’impressione d’una enorme faticata, grazie a qualche gocciolone sulla fronte, ma senza l’ombra d’un callo sulle mani.
Perché, del resto, se ce l’ha fatta lui, potrò benissimo farcela anche io. Ecco perché, venendo a taluni motti politici, l’onestà non può tornare di moda, in Italia. Semplicemente perché, purtroppo, non lo è mai stata.