Metta tutto nella doggy-bag
– Metta tutto nella doggy-bag
– Come?
– Per favore, questo lo metta nella doggy-bag…
– Mi perdoni, ma se parla così a bassa voce non riesco a capire
– Gli avanzi li porto a casa, POSSO AVERE UN SACCHETTO?
Capitano scene simili nei ristoranti italiani. Il cliente imbarazzato e il cameriere perplesso. Perché portare a casa gli avanzi di un pranzo o di una cena fuori è ancora un tabù per i nostri connazionali. Basti pensare allo scalpore suscitato da Michelle Obama che durante i lavori del GB 2009 a Roma chiese di avere un contenitore per portarsi via i succulenti resti di lasagne e carbonara che aveva appena gustato. Che male c’è?
L’usanza ha origini anglosassoni e il termine si diffuse negli anni Settanta: secondo alcuni deriva dal sostantivo inglese dog, e starebbe dunque a indicare il sacchetto o la scatola per portare a casa i resti di un pasto al ristorante e sfamare quindi il proprio animale domestico. Secondo altri, e forse con meno ipocrisia, si rifà al termine docky, che nell’est della Gran Bretagna viene usato per indicare il pranzo.
Si tratta di un’abitudine ampiamente diffusa negli Stati Uniti e nel Nord Europa, dove sono gli stessi camerieri a proporla di rito, ma che invece stenta a decollare in Italia. In tanti hanno indagato le cause di questa reticenza e due paiono essere i motivi principali. Innanzitutto difficilmente gli italiani, specie in tempo di crisi, se vanno al ristorante lasciano qualcosa nel piatto. In secondo luogo, semplicemente, si vergognano. Questa seconda ragione, di sicuro più credibile della prima, affonda le sue radici ai tempi del secondo post guerra, quando il popolo pativa la fame e faceva di tutto per non darlo a vedere. Fu in quegli anni che si diffuse, per esempio, il consumo di chewingum per placare i morsi dello stomaco vuoto. Era l’epoca in cui donne e bambini più erano grassi più erano belli e ammirati, perché la pinguetudine veniva collegata allo status economico-sociale, cioè alla possibilità della famiglia di appartenenza di comprare cibo. Non a caso, la spesa alimentare degli italiani nel dopoguerra costituiva l’80% dei consumi totali, percentuale scesa costantemente negli anni, fino ad arrivare all’attuale 18,5%. Il che non significa che oggi mangiamo meno, ma che il cibo non è più la voce di acquisto principale delle famiglie.
Ecco allora che chiedere al cameriere un sacchetto per portare a casa gli avanzi di una cena che non si è riusciti a terminare fa, più o meno inconsciamente, sentire l’italiano medio un “morto di fame”, un “povero”. Peccato che una persona davvero povera da che mondo è mondo non mette piede nei ristoranti.
Inoltre la doggy-bag ha acquisito un nuovo significato, che restituisce anche un senso compiuto al termine: le imprenditrici Francesca De Bernardi ed Elisabetta Bertoldi hanno creato una società, Doggy-bag LU Srl, che produce contenitori per conservare il cibo non consumato nei punti di ristoro. Doggy-bag LU Srl, distributrice in esclusiva di doggy-bag, ha inserito e sottoscritto nel proprio statuto sociale l’impegno a devolvere una percentuale dell’utile a a favore di associazioni dedite alla distribuzione di cibo a poveri ed emarginati, e un’altra percentuale all’Asl di Milano per la sterilizzazione e la cura degli animali ammalati e abbandonati.
Ora provate a pensare alle orge alimentari negli all-you-can-eat e nei buffet all inclusive dei villaggi turistici. Un buon padre insegna ai propri figli a finire tutto quello che hanno nel piatto e piuttosto a prendere poco, sicuri però di non avanzare nulla. Oggi, in una società con la moda del pasto parco, del risparmio energetico e del consumo sostenibile, restano due grandi paradossi: le cattedrali dello spreco, macchine da guerra alimentari in cui a tot euro puoi mangiare senza limiti e modi, e la vergogna. La vergogna di chiedere una doggy-bag.