Berlino Mon Amour
Ognuno di noi ha una città che è come una vecchia felpa, accogliente e perfettamente adattata alla nostra forma, mentre a volte la città dove si vive e magari si è anche nati e cresciuti somiglia di più ad un divano sfondato a cui adattarsi proprio malgrado.
Ovviamente il divano sfondato è lì ad accoglierci sempre, da gennaio a dicembre, nella gioia e nel dolore, in salute e con quaranta di febbre, in pigiama ed in frak, la città felpa invece non è per tutte le stagioni, se ne sta lì raggomitolata nel nostro armadio sino a quando, spesso complice l’estate, ci accorgiamo di lei e magari torniamo a trovarla.
È buffo che d‘estate si indossi una felpa, ma la città felpa non ci farà sudare, è lì solo per abbracciarci.
Berlino per me è esattamente quella felpa.
Legata a doppio filo a pensieri ed esperienze dolci e malinconiche allo stesso tempo, si è andata intrecciando alla mia vita, un filo di diverso colore nella trama della mia esistenza.
A Berlino si respira spazio e silenzio.
Berlino è una metropoli cosmopolita e colorata, ma incredibilmente silenziosa, se non si fa troppo caso alle urla che i ciclisti riescono ad emettere se si osa finire con il pollicione nello spazio dedicato alla ciclabile.
Ma Berlino è così piatta che ti invita ad esplorarla a piedi, a perderti tra le sue grandi strade, ad ammirare girovagando il paesaggio urbano che cambia da ovest ad est, dal KadeWe ad Alexander Platz.
Ed è proprio Alexander Platz il luogo del mio cuore, la tasca della mia felpa, enorme, caotica, piena di turisti, ma capace di regalarti un angolo di intimità, di sentirti al centro di questa città, nel cuore della storia della stessa Europa.
La storia del XX secolo è passata da qui, una città rinata dalle sue ceneri, che ha imparato a truccare con strass e glitter le ferite di guerra subite, ad abbassare gli occhi su quelle stolpersteine, pietre dorate che spiccano davanti a negozi, portoni di case signorili, parchi, dove magari un tempo c’erano case e adesso ci è cresciuta l’erba e qualche gioco di legno, che riportano i nomi di chi quella città l’ha dovuta abbandonare per non farvi più ritorno.
Partendo, magari dal binario 17 della stazione di Grunewald, capace ancora di riempire gli occhi di lacrime se solo ci si sofferma a pensare alla neve e al freddo, ai chilometri percorsi per arrivare in quella stazione da cui si partiva, per luoghi come Auschwitz, Theresienstadt, spesso senza far ritorno.
Una città in grado di offrire uno spaccato su questa storia, affidando alle mani di Daniel Libeskind la realizzazione del museo ebraico, che prima di essere una commemorazione è un’esperienza di straniamento architettonico, di perdita dell’orientamento e di smarrimento.
Berlino è ovest, Berlino è est, è il cafè Moskau e il Kino International su Karl Marx Allee in un pomeriggio grigio con un cielo pesante che sembra preso direttamente dalla nostra idea di “est sovietico”, è il Museo della Stasi, è scoprire come ogni persona potesse essere controllata, spiata e come la vita di tutti potesse essere riportata, fotografata e rubata, magari dal proprio migliore amico.
E’ una corsa in due, in metro, alla ricerca di questo est, fatto di palazzoni tutti uguali e anonimi, ma anche di nuove costruzioni con affaccio su Treptower Park da dodici milioni di euro, alla faccia del socialismo, della DDR e della madre patria Russia.
Chissà se da qualche parte c’è ancora qualche vecchietto che si è rifiutato di andare ad ovest, che ha resistito, che si è aggrappato anima e corpo a un’idea di Berlino divisa, che ha visto in quell‘Ampelmann che ancora oggi regola il traffico ed il passaggio, super rapido, dei pedoni una piccola vittoria dell’est sull’ovest.
Berlino è una felpa impregnata di odori che si mescolano, il currywurst con il kebab, l’odore Berlino è in grado di regalarti la sensazione di voler fare tutto, di volerlo fare subito, ti spinge a stilare una lista, almeno nella mente, delle cose da realizzare una volta tornati a casa.
Le vespe… Berlino è piena di vespe. Il tedesco medio non ci bada, continua a mangiare anche se intorno a lui si è creato un congresso giallo nero, anche se potrebbe chiedere di dividere il conto con questi insetti che riescono a rubare dei pezzi di carne più pesanti di loro, lo straniero medio, in questo caso da me rappresentato, rischia un esaurimento nervoso.
Ma Berlino val bene una vespa, se l’attacco lo subisci nel Parco del Castello di Sans Souci. “Senza pensieri” voleva stare l’imperatore Federico Guglielmo e non contento di starci solo in un posto, si regalò anche una piccola isoletta sul fiume Havel, un’isola popolata da splendidi pavoni, dove l’imperatore era solito portare la sua o le sue amanti. Sorge spontanea la domanda: ma l’imperatore forse già sapeva che poco lontano da quest’isoletta incantata in un futuro non così prossimo sarebbe sorta la mecca dello shopping low cost?
Forse l’imperatore sapeva che a Steglitz, sobborgo “bene” di Berlino, avrebbe aperto i battenti “Primark”, la terra promessa di ogni donna e anche di qualche uomo, in grado di regalare sogni fatti di jeans, acrilico e mutande a basso costo, un marchio in grado di unire l’ovest all’est di Alexander Platz, di mandare in brodo di giuggiole berlinesi ed italiane in trasferta, di far perdere il senso del tempo e dello spazio al turista, che una volta varcata la soglia si dimentica del Reichstag, della Sprea e del cielo sopra Berlino?
Chissà cosa pensa quell’angelo d’oro che sovrasta col suo sguardo tutta la città, spaziando sul Tiergarten, quante cose, quanta storia è passata sotto di lui in grado di guardare al di là del muro.
Il muro, si sa, non esiste più, l’East Side Gallery di Friedrichshain non riesce a dare l’idea di cosa fosse e di come si vivesse al di qua e al di là del cemento, del filo spinato, delle pallottole e della morte e all’ombra di un’enorme torre della televisione.
La Fernsehturm, voluta dalla DDR per dar sfoggio della propria potenza in una gara a chi ce lo aveva più lungo, sembra sempre incredibilmente vicina, sembra sempre guardarti, una Gioconda alta più di trecento metri che ogni volta ti sembra ad un passo e che invece è distante chilometri.
Berlino è la mia felpa, calda e accogliente, anche se lo so che i raggi del sole fan presto a svanire, che l’inverno è infinito, che il freddo è pungente, che il grigio incombe e che la neve si trasforma in pericolose lastre di ghiaccio ed è forse proprio per sopravvivere a questo che le torte a Berlino sono alte un palmo, stracolme di panna e calorie e che anche il peggior negozio è super fornito di idee e materiali per il fai da te, l’uncinetto, il decoupage e la cura della casa.
Berlino è in grado di regalarti la sensazione di voler fare tutto, di volerlo fare subito, ti spinge a stilare una lista, almeno nella mente, delle cose da realizzare una volta tornati a casa.
A casa, dove inizierà la lotta per non essere fagocitati dal nostro divano sfondato.