L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello
I nostri ricordi non sono mere immagini. Se pensiamo alle fragole, per esempio, non ci verrà in mente solo la loro forma ma anche il loro profumo, la loro consistenza, il fatto che sono più o meno grandi (ma in generale mai più piccole di una mela o più grandi di una nocciolina) e cose simili. Così come ci sono delle aree del nostro cervello che sono dedite esclusivamente a registrare un tipo di informazione ce ne sono altre a cui spetta il compito di integrare le diverse informazioni provenienti dalle diverse aree, e lo stesso discorso può essere fatto anche solo per la singola area visiva. Diverse aree recepiscono diverse informazioni (forma, colore, movimento, orientamento ecc.) e tutte queste informazioni convogliano nella corteccia associativa restituendoci appunto l’immagine che vediamo.
L’agnosia visiva si riferisce all’incapacità di riconoscere persone, oggetti o immagini in assenza di danni alla memoria e agli organi sensoriali, ed è dovuta ad un danno cerebrale proprio all’area che permette di integrare i vari tipi di informazione. Ci vedi benissimo, per così dire, ma non te ne fai niente di quello che vedi. Se non ci state capendo niente non abbiate timore, tra poco forse sarà più chiaro.
Quello che vi presento è decisamente uno dei casi più interessanti e divertenti in cui mi sia mai imbattuto studiando. Dopo averne letto una sintesi sul libro di psicofisiologia ho scoperto che il neurologo che ha avuto in cura questo paziente, Oliver Sacks, ha raccontato questo ed altri casi in un libro chiamato appunto L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello. Non a caso dico raccontati, invece di esposti, perché in quelle pagine non ci sono solo malattie, ci sono le persone nella loro interezza – il che non è così scontato quando a scrivere è un neurologo –, c’è un vecchio piano Bösendorfer, c’è la filosofia Kantiana, insomma c’è una realtà vera che rende a mio parere molto avvincente e interessante la lettura, ma veniamo al caso:
Il dottor P. era un uomo intelligente e un bravo musicista con un passato da cantante e un presente da insegnante in una Scuola di musica. Una persona normalissima che conduceva la vita di tutti i giorni senza alcun problema. Nel suo lavoro però cominciò ad avere delle piccole difficoltà, più imbarazzanti che invalidanti. Il dottor P. non riconosceva più i suoi allievi, o meglio, non riusciva a riconoscerli fin quando loro non parlavano, e non solo:
“gli capitava di dare affettuosi colpetti agli idranti e ai parchimetri scambiandoli per teste di bambini; rivolgeva gentilmente la parola ai pomelli dei mobili e si stupiva di non ricevere risposta.”
Questi segni non vennero presi molto sul serio dal dottor P., anzi, ci scherzava anche su. Solo tre anni dopo decise di rivolgersi ad un oftalmologo (al secolo oculista) perché preoccupato per i problemi alla vista che poteva causare un diabete appena insorto, il quale dopo un’attenta visita gli disse che la sua vista non aveva niente di anomalo ma che probabilmente c’erano dei problemi all’area visiva del cervello, e lo inviò da un neurologo (il dottor Sacks appunto).
Durante l’esame neurologico accadde una cosa singolare: il dottor Sacks gli tolse una scarpa gli sfregò la pianta del piede con una chiave per valutare i riflessi, poi si voltò ad accendere un macchinario attendendo che il dottor P. si rimettesse la scarpa, ma quando si girò notò che lui invece se n’era rimasto lì imbambolato:
“«Posso aiutare? » chiesi. «Aiutare chi? A fare che cosa? ». «Aiutare lei a mettersi la scarpa». «Oh, » disse «avevo dimenticato la scarpa» e aggiunse sotto voce: «La scarpa? La scarpa? ». Sembrava sconcertato. «La sua scarpa» ripetei. «Non deve rinfilarsela? ». Lui guardava sempre in basso, non la scarpa però, con una concentrazione intensa ma male indirizzata. Infine il suo sguardo si posò sul piede: «É questa la mia scarpa, vero? ». Avevo sentito male? O aveva visto male lui? «I miei occhi» spiegò, e si mise una mano sul piede. «É questa la mia scarpa, no? ». «No. Quello è il suo piede. La sua scarpa è lì». «Ah! Credevo che fosse il mio piede». Stava scherzando? Era pazzo? Cieco? Se questa era una delle sue «strane confusioni», era certo la più strana in cui mi fossi mai imbattuto.”
Una scenetta analoga si ripeté quando il dottor P. arrivò a descrivere un guanto come “una superficie continua avvolta su se stessa, dotata… di cinque estremità cave, se così si può dire.[…] Un qualche contenitore?”, e alla domanda di cosa poteva contenere non diede nessun segno, finché per caso se lo infilò esclamando: “Dio mio! È un guanto!”. E ancora, alla vista di una copertina del National Geographic Magazine raffigurante nient’altro che dune nel Sahara, il dottor P. riferì di vedere un fiume, un piccolo albergo con terrazza sull’acqua, ombrelloni colorati e gente che mangiava sulla terrazza. Ma dove? Ma quali ombrelloni colorati? È un deserto! La cosa secondo me più impressionante di tutti questi episodi è proprio che il dottor P. non aveva assolutamente coscienza del suo problema, e anzi appariva soddisfatto delle sue risposte pur essendo queste totalmente inventate.
Questo è dovuto al fatto che molto spesso le persone con questo tipo di problema soffrono anche di anosognosia, un altro disturbo neurologico che fa sì che chi ha un disturbo neurologico non si renda conto di averlo, ritenendo invece di aver conservato ancora quelle funzioni in realtà perse. Mi ricordo che un modo semplice per ricordarmi questo termine (tra le centinaia che avrei dovuto ricordare) era immaginare un romanaccio dire “Ah non lo so!”. Ad ogni modo, come il titolo del libro e di quest’articolo promettevano, finita la visita il dottor P. si guardò intorno in cerca del cappello, allungò la mano verso la testa della moglie e cercò di sollevarla proprio come se volesse indossarla; la povera donna reagì come se fosse abituata a questo tipo di cose.
Personalmente sono grato al dottor P. e a quelli che come lui hanno sofferto di disturbi, come dire, curiosi, per due motivi: il primo è che ci mostrano l’enorme complessità della mente e il quasi affascinante modo in cui può giocarci brutti scherzi, il secondo è legato al mio percorso di studente. Credetemi: quell’esame è veramente difficile, e queste storielle sapientemente inserite dall’autore del libro di testo lo hanno reso non solo più lieve, ma molto più interessante, dimostrandomi inoltre come sarebbe bello se curiosità e conoscenza camminassero sempre a braccetto nella vita. Non sarebbe più divertente camminare saltellando a destra e sinistra rimanendo comunque sulla propria strada? Come sempre, ad ognuno la sua la risposta!