Cala Fuili, il paradiso dei tedeschi
Cala Fuili è il paradiso dei tedeschi, me ne faccio una ragione. Erano anni che non andavo più nelle meravigliose spiagge del Golfo di Orosei, praticamente da quando ero incinta. Si tratta di una zona meravigliosa, ma come altre volte ho detto in Sardegna le cose belle te le devi guadagnare, mica roba da poco. E così per raggiungere le magnifiche cale di questo golfo hai solo due opzioni: metterti le gambe sulle spalle assieme allo zaino, munirti di buona volontà e tanta acqua, non so se più acqua o buona volontà, e camminare, oppure prendere il tuo bel traghettino o il gommoncino, come lo chiamano i turisti continentali e spendere una bella banconota da cinquanta euro (minimo sindacale) e farti trasportare dal moderno Caronte lungo la costa. Ciottoli tondi, ciottoli ovali, ciottoli scuri di pietra lavica, ciottoli bianchi di calcare levigato. Tutto un rotolare di ciottoli.
Ecco, se non siete granché allenati, ma volete comunque godere di un mare spettacolare senza dover vendere un rene, Cala Fuili è la scelta migliore, o meno peggio, fate vobis. Insomma, via terra non c’ero mai stata. Arriviamo alla fine della strada percorribile in auto, troviamo parcheggio per via di qualche congiunzione astrale favorevole e ci dirigiamo verso la spiaggia. Ma oh! Sorpresa! Siamo ai piani alti, la spiaggia è sotto al dirupo. Per carità, il paesaggio merita tutto, ma ho il bambino inquieto che mi tormenta la mano e ci saranno circa trentacinque gradi all’ombra. Ok, respiro profondo. L’odore del rosmarino si inerpica su per le narici e il mio cervello elabora un’immagine che assume la forma di un porcetto, scherzi del DNA.
Guardo la lunga scala in pietra che serpeggia tra la vegetazione e penso che ce la possiamo fare. Zaino in spalla, bambino mano per mano. Gli scalini in pietra brillano sotto il sole e scivolano sotto le suole delle infradito. Mi immolo per la salvezza di mio figlio e levo le scarpe. La pietra è rovente, pazienza, sono una madre, prima il figlio, poi io. La mano mi suda. Il braccio del bambino suda e tutti e due sembriamo due anguille che si strusciano in una danza d’amore. Che palle. Fa caldo. Sento i piedi sfrigolare sulle pietre e sto per perdere la presa.
Mantengo un’espressione imperturbabile sotto il grande cappello di paglia che fa molto turisti per caso. I gradini scompaiono del tutto in una piega ombreggiata della mia visuale. Forse ci siamo. E no, che credevi. Fanno solo una bella curva a gomito nascosta dalle rocce e dalla macchia mediterranea. Si continua a scendere. Mio figlio scalpita, io impreco, il padre latita. L’ho perso. No, è indietro ma c’è. Mi raggiunge, cerca di aiutarmi ma ormai sono una macchina da guerra, io contro le scale. Ho i piedi fumanti ma chi se ne frega, l’acqua è turchese e mi tufferò, appena arriverò al piano terra mi tufferò. Ecco l’ultimo gradino accarezzato dal cinguettio degli uccelli del paradiso e dalle radici delle piante che no, non sono mangrovie ma fanno la loro bella figura. Percorriamo un breve tratto di quello che era il letto del fiume e arriviamo finalmente alla spiaggia. Ta-da! Sopresa! Ciottoli, ciottoli e ancora ciottoli. Bellissimi bianchi ciottoli.
Ciottoli tondi, ciottoli ovali, ciottoli scuri di pietra lavica, ciottoli bianchi di calcare levigato. Tutto un rotolare di ciottoli. Ok bestemmio ora o aspetto di mettere i piedi in acqua? Attorno è tutto un sillabare in una lingua aspra: tedesco. Siamo circondati da bambini biondi con gli occhi azzurri e d’impeto penso di essere sul set de Il villaggio dei dannati. Ma no, sono cari bimbetti tedeschi che non sentono il minimo dolore nel camminare sui ciottoli. Io e il mio compagno lacrimiamo a ogni passo, mio figlio si diverte a lanciare pietre in acqua e spero non prenda un piccolo tedeschino sulla nuca, ci manca solo l’incidente diplomatico.
L’acqua è invitante. Ci tuffiamo, ma pure lì sotto è pieno di ciottoli e grandi massi, ma va bene, ormai sono a bagno e mi sto ritemprando. Mi rilasso col sole che mi danza sulle ciglia quando sento un colpo plasticoso, molliccio e bagnato su una spalla. Mi volto e sorprendo una tedesca incastrata in una ciambella galleggiante che ormai era diventata un tutt’uno col suo addome pingue. La foca monaca. No, quella da un pezzo ha abbandonato le coste di Orosei. Un’orca, sembra di più un’orca enorme, pletorica, troppo bionda, troppo larga, troppo esuberante, troppo tedesca. La segue un’orda di piccoli ovviamente biondi, ovviamente con uno di quei mostri gonfiabili a testa che sguazzano tra risate grossolane e parole incomprensibili. Respiro, o forse sbuffo, non lo so più. Penso che ormai siamo invasi, che arrivano ovunque, pure nei posti più difficili, come diceva lo spot di un panno che rimuove anche lo sporco più tenace.
Il sole inizia a scomparire lungo il percorso che a piedi porta a Cala Luna, una caletta ancora più bella di Cala Fuili e che richiede una bella camminata di due ore tra rocce e sentieri pittoreschi, ma tant’è, i tedeschi saranno sicuramente anche lì, colonizzatori vacanzieri, figli del luppolo e devoti all’Angela nazional-popolare.