Colpiscimi ancora, forte
Stava asciugandosi i capelli tamponandoli con l’asciugamano nella sua solita posa un po’ ingobbita davanti allo specchio del bagno. Tra una ciocca e l’altra, un po’ a destra un po’ a sinistra, intravvedeva il suo sguardo che perso nei pensieri mentre scuoteva la testa tornava attivo solo quando cadeva su quelle curve non volute. Alzando il mento verso il vetro argenteo aveva appoggiato l’asciugamano sul bordo della vasca accanto al lavandino e si era strizzata quell’adipe che, -la parola grasso non le è mai piaciuta- a venticinque anni – pensava- non avrebbe dovuto esserci. Nella piega del braccio un livido rotondo si mostrava dolente mentre spalmava la crema, ma più massaggiava, più faceva male, e più si sentiva forte. La sera prima era stata colpita di nuovo, come quasi ogni giorno. Per un motivo o per l’altro, e per la maggior parte delle volte anche senza motivo, diventava il sacco da boxe di chi, più debole di lei – sogghignava- non aveva che quello per mostrare quanto valesse. “In fin dei conti, i problemi sono altri. Dovrei dimagrire, asciugarmi, e forse le macchie verdi, viola se appena apparse, e gialle quando stanno per riassorbirsi, non si noterebbero così tanto“. Non era una vittima, credeva. Era la più forte di tutte perché taceva e a testa alta rispondeva “sono sbadata, ho sbattuto contro lo stipite della porta” a chi osava chiedere. Più mentiva, più si irrobustiva. Era talmente forte che nessuno aveva mai dubitato, nemmeno sua madre. Suo padre, se avesse saputo, forse non si sarebbe comunque intromesso, e dopotutto, essere forti voleva dire resistere.
Più mentiva, più si irrobustiva.
Non aveva mai pianto. Ciò che viveva quotidianamente era una routine talmente normale che quasi si sentiva più debole quando, per caso, passava un giorno senza che le venisse lasciato qualche segno. L’importante, era che a fare da tela da riempire di colori violacei fosse lei e non il suo bambino. Invece era cominciato così anche con lui, che crescendo accanto alla madre non aveva imparato ad accusare il colpo ma a sopprimerlo. Lei non poteva sopportarlo. Non poteva diventare lui il più forte. La madre è colei che sostiene, che protegge, e come uno scudo si infrapponeva tra i due, appagata dal poter essere colpita ancora, aumentando la sua resistenza. La sua possanza.
Reagendo si sarebbe sentita in errore. Reagire significava dare un valore a quei colpi e di conseguenza a chi li sferrava. Invece lei era forte, e ciò che la colpiva non le faceva male. Se avesse ceduto al dolore avrebbe vinto lui, invece lui non vinceva mai. E più si accorgeva della sua resilienza, più rincarava la dose. Non si rendeva conto che non l’avrebbe mai spezzata. Era come una lama ardente sotto i colpi del fabbro. Non si rompeva, si forgiava. E credeva che un giorno lo avrebbe capito anche lui, smettendola di provare inutilmente ad eliminarla, perché come le stelle, quando una nana bianca aumenta di massa fino al valore massimo, esplode creando una supernova colossale. Lei era una stella, lui un buco nero. Assorbiva la sua luce ma lei non se ne rendeva conto. Aveva mille altre distrazioni che riteneva più importanti perché in fin dei conti, quella era la sua normalità, e la libertà non poteva riconoscerla quando le veniva offerta, perché non l’aveva mai provata.
Confidava nella sua potenza, in attesa. Accrescendo quella che lei chiamava forza ma che forse era solamente… paura.